Comunità è l’opposto di immunità. Entrambe congiunte dal concetto bivalente di munus che è sia dono sia obbligo, come ben illustra Esposito nel saggio Communitas, che troverete negli approfondimenti.
E chi allora può essere un testimonial di una comunità disposta a perdere e a perdersi, a causa di un debito, un dovere, che la vincola non solo a sé stessa, ma ad altri?
Domenico Lucano, classe 1958, sindaco di Riace per tre mandati dal 2004 al 2018, è un pariah, un sindaco senza partito, un politico con anima da imprenditore sociale, un uomo di comunità che il suo dover dare lo sente profondamente.
Gli altri per Domenico sono quelli che non ci sono più, che lasciano una Riace che si spopola, ma gli altri sono anche quelli che arrivano da lontano, che sono diversi, che non hanno nulla in comune col luogo in cui arrivano.
L’idea Riace non è però un discorso teorico, è azione politica, nata dal leggere sistematicamente dei problemi e dall’elaborarne soluzioni, spesso spontanee.
L’idea era partita da lontano, da un veliero carico di rifugiati curdi arrivati sulla spiaggia di Riace e che hanno fatto nascere l’idea di accoglienza come soluzione ai problemi di tutti, di chi cerca casa e di chi vive un territorio che si spopola. L’idea di recuperare le case abbandonate del borgo “è stata naturale, logica”, la racconta così Domenico. Così come quella di dare una mano a chi avesse bisogno, “una questione di umanità”. Eccolo, il munus condiviso. I flussi migratori e un borgo da rilanciare sembrano problemi inconciliabili, ma che nell’intrecciarsi possono darsi risposte e in queste risposte essere comunità.
Nel fare, l’idea è divenuta modello di accoglienza, riconosciuta più fuori che dentro il Paese. L’attuazione, come spesso racconta Domenico, era lineare, quasi banale. Riace aveva gli spazi e aveva bisogno di nuove forze, umane e produttive. All’orizzonte c’erano barche cariche di umani in cerca di nuove sfide, pronti a mettersi all’opera e dei fondi pubblici per costruire sistemi di accoglienza. E così la coniugazione perfetta. Due parti che sentono di avere qualcosa da dare, come dono e come obbligo. L’obbligo di entrambi di immaginarsi un futuro diverso, pur rischiando di perdere parte della propria identità.
Il metodo Riace è geniale proprio nella gestione socioeconomica dei migranti, valorizzati come cittadini impegnati e produttivi e motore di sviluppo per tutto il paese. I 35 euro procapite destinati al sostentamento di profughi e richiedenti asilo vengono trasformati in cosiddette “borse lavoro” che danno lavoro a cooperative di cui fanno parte anche riacesi, dando la possibilità a questi uomini e donne di imparare un mestiere che gli assicuri un piccolo stipendio. Le risorse economiche rimesse in circolo creano una rete di esercizi commerciali convenzionati che permette ai migranti di provvedere personalmente con quello stipendio alle spese domestiche tenendo vivi dei negozi destinati fatalmente alla chiusura per lo spopolamento del paese, da anni in crisi per l’emigrazione degli abitanti verso altre regioni.
Ma quei soldi necessari ad alimentare il motore di questa macchina arrivano con ritardi sempre più significativi e il sindaco Lucano fa nuovamente di necessità virtù inventandosi una moneta locale virtuale, spendibile solo a Riace, fatta di banconote raffiguranti il volto di personaggi come Peppino Impastato, Che Guevara o il Mahatma Gandhi.
Il metodo funziona talmente bene ed è talmente coinvolgente che molti dei migranti accolti decidono di fermarsi a Riace, e così facendo anche la convivenza con i riacesi è pacifica e l’integrazione totale.
Un po’ per volta, riaprono botteghe e laboratori, si scongiura la chiusura della scuola e si aprono nuovi servizi, come un ambulatorio medico, si rivedono turisti e visitatori, si dà vita a festival e ad iniziative culturali che creano movimento, vita, opportunità.
La comunità, a Riace, è diventata così il patto sociale che si era creato, lo scambio tra chi già c’era e chi era arrivato. Un patto che dura fino al 2016, sostenuto e riconosciuto direttamente sia dalle istituzioni Prefettura, Governo, sia dai cittadini, tanto che Domenico è riconfermato per tre mandati.
Un sistema di comunità che man mano si adatta ed elabora soluzioni alle resistenze e ai problemi che incontra, ad esempio dotandosi di una moneta locale che convertisse e colmasse i ritardi nel percepire i fondi ministeriali sull’accoglienza.
Questa tenacia, però, non è vista di buon occhio e nel tempo le resistenze aumentano, anche per la profonda crisi economica che colpisce sia il Paese sia i servizi di accoglienza. Domenico si trova accusato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e di molto altro, da lì non cerca vie di fuga, non cede alla ricerca dell’immunità, ma resta fedele alla sua comunità, al suo senso di dover dare: “se e quello di cui mi si accusa è di aver dato casa a disperati e agli ultimi del mondo, io lo rifarei”. Passa così, dall’arresto al divieto di dimora nella sua Riace, fino al tribunale del riesame definisce “inconsistente” il quadro giuridico delle accuse, annullando il quadro penale del procedimento.
Ritrova parte della sua libertà, perdendo il consenso, le elezioni, quella comunità. Con la forza di continuare a trovare nuovi doni e nuovi obblighi verso nuove comunità.