Matteo Bottarelli ha conseguito la laurea magistrale in psicologia con particolare attenzione a un approccio clinico e di comunità rivolto all’attivazione, dal basso, di processi di coesione sociale. Ha poi seguito diversi master di specializzazione approfondendo i temi della progettazione, della formazione, della selezione, delle risorse umane, delle politiche attive del lavoro. Lavora poi nelle risorse umane prima nel profit e poi nel no profit. Si interessa di sviluppo di start up, sta curando a questo proposito un progetto che mette in dialogo giovani e professionisti.
Spesso nella selezione è più facile orientarsi rispetto a competenze tecniche già delineate e facilmente reperibili nel percorso di studio e nelle esperienze professionali pregresse dei candidati. Più difficili da valutare e interrogare sono invece le competenze più trasversali (attitudini, predisposizione, desiderio, posizionamento, possibilità di crescita) che spesso trovano poco spazio nella selezione. Quanto un’azienda è consapevole del ruolo che queste competenze possono giocare nell’arricchire il profilo ricercato?
Sulle soft-skill, sulle competenze trasversali, non so quanto l’interesse, tanto decantato, sia “ideologico” o “alla moda” o quanto siano competenze che le aziende riconoscono come elementi che interessano davvero. Sicuramente le competenze tecniche, le hard skill, sono al primo posto nella valutazione. Per il recruiter sono più facili da indagare, questo anche nel senso che rappresentano una maggiore garanzia e tutela per il selezionatore che ha “nero su bianco” quello che sta cercando. Le competenze trasversali sono più difficili da indagare. Per farlo si possono utilizzare domande mirate sulla gestione gruppo, del tempo, sull’attitudine alla leadership o sulla capacità di motivare il gruppo di lavoro. Possono anche essere indagate con colloqui o strumenti più condivisi come con la costruzione di un bilancio delle competenze partecipato. Questo richiede la strutturazione di un colloquio meno rigido, più libero, aperto, che metta il candidato a suo agio e permetta l’emersione di aspetti e competenze meno “impostate”. Detto questo, sicuramente la priorità per l’azienda rimangono le competenze tecniche. Dipende però anche dalla cultura dell’organizzazione, dalla riflessione sulla sua identità e il ruolo della ricerca del personale. Ci sono anche brand famosi che, a seguito di un turn over molto alto degli addetti alle vendite, hanno dovuto rivedere le modalità di recruiting. Il venditore doveva garantire il coinvolgimento dei clienti, la loro fidelizzazione, creare una relazione con i clienti che facesse loro percepire l’acquisto come un’esperienza piacevole. Quindi i marchi hanno dovuto orientare i recruiter a valorizzare, analizzare maggiormente le soft skills. Diverso discorso in aziende dove l’influenza delle competenze tecniche è più alta e decisiva, vedi il caso del campo informatico o di figure professionali che si occupano di data entry. La mia esperienza, ma penso possa valere anche a livello nazionale, è che il mondo delle risorse umane sia in generale poco conosciuto dalle imprese. Imprenditori e recruiter appaiono poco propensi ad assumersi dei rischi. Se volessi cambiare lavoro (dopo sei anni di esperienza nelle risorse umane) e inviassi un mio cv a imprese che si occupano di marketing sarebbe difficile poter accedere anche solo a un colloquio. Il mio Cv non sarebbe minimamente considerato. Non condivido assolutamente questa modalità. Oltretutto questo approccio diventerà, probabilmente problematico, quando le nuove generazioni entreranno a contatto con il mondo del lavoro. I millennials mostrano una forte propensione al cambiamento e a vivere esperienze diverse, alla sperimentazione. Non sono sicuro che le aziende siano oggi in grado di riconoscere o valutare questa propensione al cambiamento, allo spendersi in campi differenti, come un’occasione.
Quale ruolo pensi le imprese attribuiscano alla selezione del personale? Leggono la selezione come occasione, possibilità, che può incidere sul futuro dell’azienda e sulla sua riuscita?
Dipende un po’ dalle diverse situazioni e dai ruoli, mansioni, ricercate. In posizioni meno qualificate questo orientamento non c’è. In relazione a ruoli diversi, vedi manager, è forse più presente la richiesta di una condivisone della mission o dei valori dell’azienda. La consapevolezza da parte dell’impresa sulla propria identità gioca un ruolo forte. La consapevolezza legata alla cultura del lavoro e alla mission orienta maggiormente la ricerca di nuove figure da assumere. Nel no-profit i valori e la cultura organizzativa sono aspetti molto sentiti e radicati, quando lavoravo nel profit questo aspetto era molto meno percepito, in primis dalle imprese. Se una organizzazione ha chiare le proprie origini, la propria mission e identità ha comunque la possibilità di selezionare persone che condividano un orizzonte comune, più appartenenti, con un’identità che idealmente sia più corrispondente alla cultura dell’impresa. In realtà posso dire che da questo punto di vista ho fatto esperienza di diversi paradossi. In generale nel mondo della selezione il datore di lavoro o il responsabile della ricerca del personale tendono a non avere molta consapevolezza in relazione al ruolo che cercano, la figura è spesso poco a fuoco. Prima sarebbe necessario mettere a tema cosa, chi, si cerca effettivamente. Sarebbe necessario avere bene in mente non solo le competenze che si desiderano ma anche le caratteristiche del ruolo che si intende inserire o coprire. Invece spesso si procede per tentativi, visionando via via sempre più candidati e profili cercando di aggiustare così il tiro, in corso d’opera. Spesso chi si occupa di selezione deve anche aiutare l’impresa, durante il percorso, a capire meglio il suo bisogno. Capisci quanto questo complichi le cose anche in un’ottica di valutazione. In generale c’è poca cultura e conoscenza del mondo delle risorse umane. Non solo, c’è anche poca consapevolezza delle peculiarità delle figure, delle competenze, dei ruoli e delle mansioni non solo che si desiderano ma anche che ci sono in azienda. Spesso questo è visibile anche in situazioni che sembrerebbero più aperte al dialogo. E’ il caso di imprese che cercano figure che vengono descritte come molto poliedriche ed eclettiche. Non sempre c’è un governo di ciò che idealmente desidero, come impresa e ciò che poi può davvero funzionare. In alcuni casi si chiede al candidato una disponibilità senza una cornice chiara, condivisa, misurabile. Ancora una volta torna il problema della consapevolezza. Nel progetto di startup che ho seguito avevamo per esempio bene presente le competenze, funzioni, mentalità che stavamo cercando. Questo permette anche di bilanciare gli aspetti legati alla mentalità della persona che vorresti selezionare (in quel caso spirito manageriale, propensione al rischio, leadership) e contenuti tecnici. E’ necessario sempre trovare un equilibrio, ma questo deve essere un processo consapevole, è ad esempio possibile investire, scommettere, sulla mentalità per poi andare a potenziare le hard skill, questo però deve essere fortemente connesso al ruolo, alla mansione, al progetto che ho in testa.
La selezione è spesso legata a esigenze immediate volte a coprire un posto vacante, a rispondere a una necessità legata al presente. E’ possibile immaginarsi anche un orientamento più rivolto al futuro (del lavoratore e dell’impresa)? Quanto il tema della crescita delle risorse è presente nella selezione e richiesto dall’azienda (come sguardo non solo sull’oggi ma anche sul domani)?
L’accompagnamento è da tenere in considerazione, qualsiasi azienda dovrebbe cercare di trasmettere valori, formare, addestrare, fare crescere una risorsa e coltivarne la motivazione. In generale l’investimento sulla formazione è molto basso, tolta la formazione di base conosco poche realtà nelle quali questi aspetti sono considerati e strutturali. Ad esempio, pochissime pagano dei master o dei percorsi di formazione integrativa. La crescita professionale è più demandata al singolo, una volta che stacca del lavoro, lo fa a proprie spese, investendo su se stesso e sulla propria crescita professionale. Capisco che le aziende si tutelino dal rischio che la persona poi possa andarsene e che l’investimento fatto sia a fondo perduto, che la scommessa sia persa. Eppure c’è anche il rischio che si instauri un circolo vizioso (c’è da chiedersi quanto il potenziamento delle competenze sia un patrimonio dell’impresa, comune a impresa e lavoratori, o piuttosto sia solo personale) che porta il lavoratore ad intendere la sua crescita come elemento solo suo, per poi a giocarsi sul mercato. Senza investire sulle persone si va poco lontano, se si trattano le persone come delle pedine per coprire dei buchi non si può pensare che ci sia un investimento, come nel caso di lavoratori che vengono tenuti per molto tempo in somministrazione, non si può pensare certo che ci si possa aspettare molto di più che una pura esecuzione di un compito. Certo sono scelte che spesso si devono fare, anche per altre questioni, ma manca forse la consapevolezza degli effetti non solo sulla persona ma anche sul lavoro e sull’efficacia della resa e dello sviluppo anche interne all’impresa.
E’ possibile intendere il rapporto tra competenze trasversali e tecniche come un dialogo aperto?
Alla fine in Italia, la valutazione delle persone è ancora molto vincolata alla lettura del mero cv, si punta a valutare dati puramente oggettivi, non c’è spazio per valutare il desiderio di mettersi in gioco, la curiosità, la voglia di sperimentarsi. Questo forse dice anche qualcosa delle imprese. Una persona risulta marchiata a fuoco. Se passi sei – sette anni in un dato settore è molto difficile, se non accettando compromessi scandalosi come contrappasso, poter far cambiare direzione alla propria professionalità. Questa è sicuramente una pecca. Le nuove generazioni per le loro attitudini metteranno, in futuro, alla prova le aziende. La storia del CV non è un destino, andrebbe letta in un altro modo. Io tendenzialmente guardavo con attenzione le lettere di presentazione, è una dimostrazione di interesse e di aver pensato, essersi informati rispetto alla posizione per la quale una persona si candida. Dicono molto di una persona, i suoi interessi, i suoi valori, la sua motivazione. Ha dedicato del tempo per descriversi. E’ uno spazio di apertura. Adesso stanno prendendo spazio anche i “video CV” oppure delle video presentazioni di progettualità che accompagnano la candidatura, queste potrebbero essere delle modalità di narrazione per aiutare a conoscere meglio la persona e la sua propensione. Sempre che il mondo del lavoro acquisisca una maggiore consapevolezza.