Alessandra Ballerini è counselor, insegnante di yoga, mamma di quattro figli e professionista nelle relazioni d’aiuto. Da diversi anni ha avviato, insieme ad altre famiglie e un’insegnante, una scuola parentale in provincia di Como. La sua esperienza professionale e di vita l’ha portata a maturare uno sguardo olistico rispetto all’istruzione, valorizzando le reciproche influenze tra corpo, mente e spirito.
Come ha maturato l’idea o il desiderio di cimentarsi nella progettazione di una scuola parentale?
La mia esperienza mi ha portata a capire che ciò che davvero importa nell’istruzione molte volte non è riscontrabile nelle scuole esistenti. Non è sempre così: conosco realtà virtuose e non è corretto dire che tutto va male. Del resto esistono anche molti cliché sulle scuole parentali: molti pensano che siano scuole che non rispettano le regole, che si isolano… Nella nostra scuola crediamo che le regole esistano e vadano rispettate, e crediamo che sia molto importante relazionarsi anche con gli istituti comprensivi del territorio. perché questi due tipi di scuole, la nostra e quella pubblica, sono due visioni diverse che rispondono a bisogni diversi delle famiglie, ma possono coesistere. Alla fine, è il professore, l’insegnante, che fa la differenza. Un istituto comprensivo può avere un ottimo dirigente, virtuoso, che sostiene degli ottimi valori e delle modalità all’avanguardia, innovative ma poi è l’insegnante che è a contatto quotidianamente con i bambini, e se non condivide questi valori tutto l’impianto rischia di perdersi. L’idea di aprire una scuola parentale nasce dal riconoscimento di quanto sia importante l’impostazione di un metodo e di una prospettiva didattica condivisa da tutti e agisca sui processi di apprendimento dei singoli e del gruppo classe.
All’origine della nostra scelta c’è stata un’esperienza negativa vissuta all’interno della scuola statale dalla figlia di uno dei genitori del gruppo: esperienza che l’ha messa in difficoltà anche da un punto di vista psicologico con importanti ripercussioni sulla sua vita scolastica. Per poterla aiutare a ricostruire quello che era andato in frantumi abbiamo cercato un contesto che potesse sostenerla, e abbiamo così conosciuto una scuola parentale del territorio che la bambina ha frequentato per un anno e mezzo, periodo in cui ci siamo coinvolti attivamente nell’organizzazione della scuola. In questo tempo, grazie al confronto con un ente già strutturato, abbiamo maturato la consapevolezza che potevamo aspirare a costruire qualcosa che corrispondesse ancora di più ai nostri valori e alle nostre attese condividendo questo progetto con altre famiglie e soprattutto con un insegnante perché -come dicevo prima- è l’insegnante che trasmette ai bambini esperienze significative e li introduce alla condivisione di saperi.
I metodi e le modalità di insegnamento sono una parte fondamentale del processo di apprendimento ma alla base di tutto ci deve essere uno sguardo educativo e un’intenzione capaci di osservare e tenere insieme le diverse dimensioni che intervengo nel formare la persona, cogliendo come i bambini comunicano, come si muovono in un contesto, come i genitori si relazionano con loro. In questo senso educare significa in primo luogo aiutare a sviluppare le singole potenzialità di ciascuno fornendo al contempo gli strumenti perché una persona possa esprimersi e realizzarsi, in futuro, per come è. E’ una sfida pazzesca che costringe l’educatore a una costante instabilità. Non si basa su certezze, regole da applicare o risposte preconfezionate perché l’insegnate deve considerare il bambino, la persona che ha davanti, nella sua complessità e unicità. Anche per questo crediamo che sia necessario che gli educatori debbano lavorare molto su sé stessi, toccando le paure che provano e interrogando le esperienze che vivono e il ruolo che hanno, per loro e per i bambini.
Questo nella pratica quotidiana, nel gruppo classe che declinazione trova?
Per poter operare con questa modalità i gruppi classe devono essere piccoli: in una scuola statale o paritaria, dove i gruppi classe sono molto grandi, comprendo che sia assolutamente impossibile per un insegnante lavorare in questo modo. Non è colpa dell’insegnante: è proprio che non ci sono le condizioni possibili. Noi abbiamo classi di otto bambini: lo so, sono pochissimi! Questo però consente di dare a ciascun bambino stimoli diversi. L’insegnante, l’educatrice. l’educatore devono utilizzare differenti linguaggi, partendo dall’osservazione dei singoli bambini e trovando quale modalità sia più affine al singolo bambino che ha di fronte. E’ da questa considerazione che nasce la scelta delle modalità con cui relazionarsi con quel bambino e l’individuazione del terreno dal quale iniziare il viaggio dell’apprendimento, creando una relazione salda. Questo non vuol dire che ci accontentiamo di un’unica modalità: man mano che la relazione tra educatore e bambino si consolida, si possono esplorare altre modalità coinvolgendo i bambini nella costruzione del loro sapere. E’ un processo che educatori e studenti fanno crescere insieme, e che non viene imposto da parte dell’insegnante. Tendenzialmente in una scuola statale viene insegnato un unico metodo di studio: per noi invece è importante capire che è possibile arrivare allo stesso risultato passando da strade differenti, e non è detto che una sia migliore dell’altra.
All’interno del gruppo classe come interagiscono i bambini? Ci sono attività che prevedono approcci simili a quelli della peer education, attività di gruppo?
Assolutamente sì. Ogni settimana viene affidata a questi bambini, a casa, una missione, un compito. I bambini -come fossero degli esploratori- devono capire come reperire le informazioni e gli strumenti necessari. Noi non usiamo libri di testo: una volta alla settimana andiamo in biblioteca e cerchiamo di restituire ai bimbi il piacere di coltivare più punti di vista. E’ molto forte per noi l’idea che non sia l’insegnante a consegnare all’alunno un sapere già predefinito. In questo modo, anche in funzione delle età dei bimbi, avremo risposte differenti, e non importa se la risposta che loro danno è giusta o sbagliata: hanno ragionato e nel loro ragionamento è comunque vero quello che ci restituiscono. Crediamo che sia importante apprendere facendo esperienza, come rilevano le neuroscienze: imparo vivendo esperienze significative e caratterizzate da un’emozione positiva, ciò che ho appreso resterà fissato nella mia memoria perché l’ho vissuto. Tornando al concetto delle missioni ogni singolo bambino ha un’esplorazione differente da compiere, ma il tutto poi viene ricondotto all’interno del gruppo. Faccio un esempio: se a un bambino viene chiesto di lavorare su un apparato circolatorio, osservando, facendo degli esperimenti o utilizzando delle schede o delle tabelle poi riporterà al gruppo quanto ha imparato confrontandosi con gli altri. Accade poi magari che la stessa missione venga affidata a due o più bambini, magari con attitudini, sguardi, linguaggi differenti. Inevitabilmente arriveranno in classe con lo stesso tema visto da due angolazioni completamente differenti e da questa molteplicità scaturisce una visione più ampia e anche la possibilità di un confronto, di una relazione. In questo modo i bambini non vivono un rapporto con l’altro segnato dalla competizione, dall’ansia di copiare l’altro o di difendere ciò che ritengono di loro proprietà, ma iniziano a cooperare e a fare esperienza di come si lavora insieme perché insieme arrivano più lontano. Non è facile, ma pian piano, facendone palestra fin da piccoli, si arriva in quinta elementare a lavorare e ad approcciarsi a questa modalità (che non è molto differente da quelle utilizzate nel team building), riuscendo a valorizzare i diversi apporti.
Spesso un tema vissuto con fatica nelle scuole è il confronto con competenze differenti o diverse fragilità
Quest’anno abbiamo avuto all’interno del gruppo classe una bambina con la sindrome di Down: a detta della sua famiglia non è mai stata così serena e non si è mai sentita così appartenente ad un gruppo come quest’anno. Non è stata fatta nessuna lezione agli altri bambini, nessun discorso del tipo “guardate che è una bambina fragile “ e così via. Per noi non era necessario perché il nostro approccio cerca di valorizzare ogni bambino. Ognuno ha potenzialità differenti e questa è la chiave per evitare che la competizione porti i bambini a non sentirsi riconosciuti.
Prima parlava delle “missioni” svolte anche al di fuori del contesto scuola: mi sembra che proponiate un approccio molto sensibile all’esterno, al territorio
Una mattina alla settimana i bambini vanno in biblioteca: la vivono proprio come se fosse per loro una seconda aula. E’ un’esperienza che coinvolge direttamente la bibliotecaria che ogni giovedì legge loro un nuovo racconto, parla dei nuovi libri che ha acquistato, e magari li ha acquistati partendo dagli interessi manifestati direttamente dai bambini. Essere collegati al territorio, avere dei punti di riferimento sani all’interno della comunità, favorisce l’idea, nei bambini ma non solo, che i bambini sono cittadini e che possono esserne protagonisti. Non devono aver paura o temere gli altri interlocutori, gli adulti, le istituzioni: sono risorse con le quali dialogare e vivere esperienze anche legate alla vita quotidiana. I bambini una volta a settimana vanno anche a fare la spesa nel paese perché così continuano a conoscere il territorio e applicano anche le conoscenze che hanno appreso (il pensiero matematico, il pensiero logico). Se devo cucinare una ricetta per 10 persone partendo da una ricetta base per quattro, dovrò considerare i prodotti che mi servono, le quantità e anche quanto mi costerà. I bambini hanno in mano il portafogli e iniziano a confrontarsi con la realtà perché imparare, costruirsi, andare a scuola non devono essere astrazioni: se non ho vissuto un’esperienza e provato l’emozione positiva che questa veicola, di quei concetti mi dimenticherò presto.
Le competenze che nominava come hanno influito nella crescita dei bambini, come si sono trovati nel passaggio nelle classi successive e in altre scuole, com’è stato il loro adattamento?
In questo momento i bambini più grandi sono in quinta elementare quindi il passaggio ancora non l’abbiamo vissuto. Stiamo cercando di organizzare anche una scuola media parentale perché si possa andare avanti a lavorare in questo modo, valorizzando un apprendimento basato sull’apertura e la curiosità. Dovessero entrare poi in una scuola statale o paritaria, insomma in contesti più canonici, questi bambini, almeno che non incontrino professori che amano accogliere la curiosità da parte degli alunni, potrebbero vivere un certo disagio nel non sentirsi più ascoltati. Per noi ogni cosa che il bambino ha da proporre o da dire (ovviamente non in ogni secondo della giornata!) è importante. Cerchiamo di dedicare ampi spazi nei quali i bambini possano esprimersi. La preoccupazione è che possa venir meno la possibilità per loro di essere riconosciuti per quello che vivono e desiderano e per ciò che per loro è importante comunicare a insegnanti e genitori; il rischio è che possa mancare uno spazio aperto alla manifestazione e all’espressione di un desiderio rispetto all’apprendimento, all’espressione della propria curiosità. I nostri bambini sono abituati a costruire il loro sapere, il loro modo di conoscere, non a leggerlo da un unico testo. Gli viene spontaneo dire “ok questo testo dice questo, ma un altro libro cosa dice al riguardo?” E’ vero che questa possibilità c’è anche a casa, ci sono tutti i pomeriggi disponibili, ma io, bambino, troverò il professore che avrà voglia di ascoltare quello che, come esploratore, ho trovato?
Questa mi sembra una domanda molto bella sull’insegnamento, la scuola e non solo. Sarebbe una chiusura perfetta, quanto meno per questa intervista. In realtà, forse, è piuttosto una domanda che vale la pena lasciare aperta.