Trent’anni di mazzate. Da tanto dura la crescita delle disuguaglianze nei paesi occidentali.
Per quanto riguarda le disuguaglianze economiche, una gran mole di dati documenta il loro sistematico peggioramento per il complesso dei paesi occidentali nell’ultimo trentennio, ma questo fenomeno riguarda il complesso del mondo: l’1% più ricco concentra circa il 50% della ricchezza mondiale.
Anche in Italia, le disuguaglianze economiche sono elevate e mostrano un trend crescente. La disuguaglianza di reddito è in aumento dall’inizio degli anni ’80. La crisi ha ridotto i redditi familiari in modo generalizzato ma ha avuto effetti più forti soprattutto per le fasce meno abbienti o povere. Nel 2014 il 10% di italiani con il reddito più basso aveva, in media, reddito inferiore di circa un quarto rispetto a quello di cui disponeva del 2008. Fortemente cresciute, rispetto agli anni ’80, sono le quote di reddito e di ricchezza detenute dall’1% più ricco, passate rispettivamente dal 6,9% al 9,4%, la prima, e dall’11% al 21%, la seconda.
La disuguaglianza in ricchezza, infine, è molto più forte di quella dei redditi. Durante la crisi cominciata del 2008 la ricchezza media degli italiani è scesa del 15 per cento, mentre quella dei dieci italiani più ricchi è aumentata dell’83 per cento. Il “top 1 per cento”, ossia l’1 per cento più ricco della popolazione, possiede una quota variabile tra il 15 per cento e il 25% della ricchezza totale, a seconda della fonte. Non solo: la disuguaglianza di ricchezza spacca le generazioni, a beneficio dei più anziani, che hanno guadagnato, mentre gli under 40 hanno perso.
Le disuguaglianze economiche riguardano le disparità nei redditi e nella ricchezza privata, ma hanno echi anche nel lavoro (accesso a un lavoro adeguato alle proprie capacità, retribuzione, rischiosità…) e nelle conseguenti condizioni materiali di vita. Le disuguaglianze economiche si spingono fino a determinare e rendere croniche situazioni di povertà, e la povertà in Italia è ereditaria. L’altro elemento su cui riflettere è quanto una condizione economica svantaggiata possa avere radici anche in un divario educativo. La diffusione della povertà diminuisce al crescere del titolo di studio.
Se la persona di riferimento ha il diploma o la laurea, la famiglia è povera in meno del 4% dei casi. Con la licenza media, la quota sale al 9,8%; con quella elementare all’11%. Ed è interessante provare a individuare, nei dati dell’istituto di statistica, il trend nell’ultimo triennio: più stabile per i laureati; in sensibile crescita per gli altri.
Ci sono poi disuguaglianze sociali che riguardano, in primo luogo, disparità nell’accesso e nella qualità dei servizi fondamentali come sanità e istruzione, cura sociale, mobilità e sicurezza e nella possibilità di accedere ad opportunità culturali. A queste disuguaglianze se ne aggiunge un’altra che con esse interagisce: la diseguaglianza di status e di considerazione sostenuta dall’idea che esistano categorie di persone non meritevoli di accedere alle stesse opportunità delle altre.
Le disuguaglianze sociali sono ben misurate in tutta l’Unione Europea e mostrano l’insuccesso dell’Unione in questi ultimi venti anni, anche prima della crisi, di garantire l’estensione a tutti i cittadini Europei dei benefici dell’apertura dei mercati. Anche in Italia, le disuguaglianze sociali sono elevate. È vero per l’accesso a servizi come gli asili nido, ma anche per la qualità della salute, che in Italia, come in altri paese, è fortemente influenzata dal livello di istruzione. La riduzione e riorganizzazione della spesa pubblica per la non autosufficienza ha accresciuto la dipendenza della gestione e del finanziamento del processo di cura dalle famiglie, incrementando così il rischio di povertà delle famiglie coinvolte nella cura degli anziani. La disuguaglianza nell’accesso ai servizi fondamentali e nella loro qualità ha una forte dimensione territoriale.
Ci sono infine disuguaglianze di riconoscimento che riguardano il fatto che il ruolo, i valori e le aspirazioni della persona non sono riconosciuti da parte della collettività e della cultura generale. Tali disuguaglianze hanno una forte dimensione territoriale: assai spesso chi vive nelle periferie, in aree rurali o centri urbani minori avverte di vivere in luoghi senza una prospettiva, lontani dai flussi di innovazione e dai centri di decisione. La disuguaglianza di riconoscimento tende anche a tradursi in disuguaglianze economiche e/o sociali, perché dal mancato riconoscimento derivano scarso potere negoziale e scarsa considerazione nel disegno delle politiche, ma le disuguaglianze di riconoscimento pesano di per sé perché mortificano la dignità delle persone e creano senso di esclusione.
Le disuguaglianze di riconoscimento sono meno analizzate, perché riguardano un fenomeno di difficile misurazione, ma le conseguenze di queste disuguaglianze sono colte da indagini di campo e sono visibili sul terreno politico: proprio le fasce sociali che si sentono perdenti su questo fronte appaiono più vicine, al momento del voto, ai nuovi movimenti che identificano nell’apertura delle frontiere e dei mercati, nella globalizzazione e nelle migrazioni le cause dei loro problemi. Le comunità e i gruppi dei non riconosciuti tendono ad essere attratti più dalla chiusura e dal rancore, piuttosto che dall’apertura e dalla cura. Vivono con sospetto e fastidio ogni forma di ospitalità.
La lotta alle disuguaglianze è un problema di giustizia che la Costituzione Italiana ha recepito con grande chiarezza : ‘E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.’ (art 3 c.2). Pietro Calamandrei, Padre Costituente, commentava questo articolo parlando con gli studenti dell’Università Cattolica di Milano nel 1955 affermando che la Costituzione italiana ‘mira alla trasformazione di questa società in cui può accadere che, anche quando ci sono, le libertà giuridiche e politiche siano rese inutili dalle disuguaglianze economiche dalla impossibilità per molti cittadini di essere persone e di accorgersi che dentro di loro c’è una fiamma spirituale che se fosse sviluppata in un regime di perequazione economica, potrebbe anche essa contribuire al progresso della società’.
Ridurre le disuguaglianze è una questione di giustizia. E di welfare.