Cosa sei disposto a perdere?

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Non sentiamo parlare d’altro. La più grande crisi dal dopoguerra. La fine di molte certezze e consuetudini che abbiamo archiviato, spesso nostro malgrado. Abbiamo dovuto rinunciare a tanto. E allora ci è parso necessario farci una domanda. Ok, Abbiamo perso molto. Ma noi, cosa siamo disposti a perdere? A cosa siamo disposti a rinunciare per un futuro che vorremmo migliore?

LeProposte intraprende un viaggio che, analizzando diversi aspetti, ci accompagnerà per qualche uscita. Un viaggio che in questo numero prende le mosse da una lettura più intimistica: come ci sentiamo in queste turbolenza? Come stiamo reagendo?

Nei prossimi numeri la riflessione ci proietterà nella dimensione quella più strategica delle scelte imprenditoriali, per arrivare poi ad immergerci nel contesto “comunità” per comprendere, da tante sfaccettature, il tema del cambiamento e della perdita.

E poi, ancora: perdita o cambiamento?

Due temi legati a doppio filo oppure un unico tema che offre due punti di osservazione diversi intorno ai quali muoversi, in senso orario o antiorario, ma che in ogni caso descrivono un percorso.

Ed è proprio nel percorso, nella ricerca di senso, nell’attaccarsi a quella quotidianità che non si controlla e percepisce mai fino in fondo, che le storie che qui di seguito presentiamo non vanno a definire due linee di pensiero o due modi opposti di vedere il lavoro, ma unica scelta, quella di rialzarsi. Una scelta quotidiana che definisce il crinale tra la morte e vita, tra il decidere di scegliere o di subire.

La cura dell’equilibrio

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Fatica? Certo. La solita fatica. Con le sue difficoltà e le sue bellezze. Del resto in crisi lo eravamo anche prima: vogliamo parlare della bolla dei subprime americani? O di quella dei mercati asiatici? O della crisi del 2008? Crisi è un altro modo di dire vita. E di qualità della vita ognuno ha la sua. “Ognuno ha la sua schiena
per sopportare il peso di ogni scelta, il peso di ogni passo, il peso del coraggio” canta Amara. (Link al video)

Alla fine l’unica cosa che conta nelle turbolenze è saper tenere l’equilibrio, trovare una propria sensatezza leggera: una ricerca di senso che non cerca di trattenere ciò che è perduto, che non si fissa con preoccupazione su ciò che vuole ottenere domani, ma che costruisce nell’oggi tutto il valore possibile. Certo per cercare un equilibrio così leggero bisogna mettere in discussione tutto. Accettare ridefinizione economiche, ad esempio. Lasciare certezze che sono ancoraggi, ma anche rigidità. E scegliere un proprio centro mobile. Dobbiamo smettere di camminare sul ghiaccio coi ramponi cercando stabilità per indossare i pattini tra volteggi e salti che si reggono solo affidandosi al movimento e a un proprio personale disegno.

“Un amico africano mi ha insegnato che non dobbiamo preoccuparci se piove: verrà il sole e ci asciugheremo. La pioggia passa. E certe volte stare sotto la pioggia può essere piacevole come stare sotto il sole, o viceversa stare sotto il sole può essere fastidioso come prendere acqua.  Ad ed esempio nelle difficoltà si fa più squadra, si dà più valore alle relazioni.” ci ha raccontato Luigi. (Link all’intervista).

Perché stare nelle turbolenze cercando equilibrio chiede di dimenticarsi l’oggettività per affermare che la Vita ha i suoi valori. “Il cuore ha ragioni che la ragione non conosce’. E se lo diceva Blaise Pascal, che era un matematico, forse possiamo dargli credito.

Non ci sono temi eroici in questo pensiero ma, forse, una ricetta. Una ricetta per ritrovare motivazione e senso e rileggere positivamente il nostro personale percorso.

Eppure resistiamo

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Fatica, fatica, fatica. Stiamo facendo una gran fatica. Eppure…

Eppure resistiamo, perché è quello che abbiamo imparato a fare nella nostra vita… spesso imparandolo proprio nella nostra vita lavorativa. Nella difficoltà cerchiamo alleati, inventiamo soluzioni nuove, reagiamo spendendo le nostre migliori energie.

Spesso ci buttiamo sul lavoro, perché impegnarsi su questo fronte ci rassicura: ci aiuta a pensare che se abbiamo una occupazione e un reddito, se offriamo questa opportunità anche ad altri, stiamo facendo la nostra parte, e la stiamo facendo anche bene. E allora pensare a come stiamo nella difficoltà coincide col pensare come fare andar bene le cose nell’impresa in cui siamo e di cui ci sentiamo (e siamo) responsabili, ognuno per il suo ruolo.

“Dovremo tutti, anche io, pensare alla cooperativa, aggiungere tempo ed energie a fianco all’ordinario e farci venire idee particolari anche cercando di immaginare dove ci saranno risorse domani e su quali nuovi mercati” ci dice Roberto. (Link all’intervista)

E reagendo sul lavoro diventiamo anche più capaci e forti come persone. Carolina lavora in una cooperativa nata dalla crisi di una impresa, grazie all’investimento e all’impegno dei lavoratori che erano dipendenti e ora sono imprenditori, e ci racconta che: “Queste azioni devo ammettere mi hanno resa più forte, mi hanno dato tanta energia e voglia di fare e unite alla consapevolezza della maturazione che avviene nel processo dall’essere dipendente a diventare imprenditore in qualche modo hanno contribuito ad accrescere la mia autostima.” (Link all’intervista)

Insomma… la cura per la fatica è… più fatica, perché il lavoro è il modo che abbiamo per cambiare il futuro. E forse va anche bene che sia così.

Testimonial: Ilaria Capua

Ilaria: veterinaria, ricercatrice, virologa, moglie, madre , ma anche figlia di famiglia borghese burrascosa, enfant prodige per caso, trafficante di virus arrogante e zoccolaccia, così han detto.

Attraversare la vita di Ilaria è una continua virata tra panorami diversi, tra la ricerca costante e caparbia della costruzione di sé e la decostruzione minacciosa e senza scrupoli che di lei viene fatta.

“C’è qualcosa di ancora più doloroso che mi ferisce dentro. Come hanno potuto credermi una persona talmente avida, calcolatrice, ignobile? No, quella descritta nell’articolo non posso essere io. Non mi somiglia neanche”.

“Non metterla così” riprende lui “prendila da un punto di vista oggettivo. Scientifico. Che succede quando un animale entra in conflitto con il branco? Lo sai? Il branco prima lo esclude e poi lo uccide”.

Questo, forse, il dialogo di sintesi che ripercorre i punti più significativi della crisi, o meglio, delle crisi che Ilaria attraversa nella sua vita. Ogni crisi è un cambiamento, per dirla metaforicamente, simile al mutamento di un virus. “Un virus non è un mostro, sapete? E’ una macchina molto semplice, leggera, incentrata su un obiettivo…direi anche elegante”.

L’obiettivo per Ilaria è chiaro: fare della scienza un’occasione di salute integrale (one health) , in cui la ricerca non è un’attività ispirata e solitaria, come spesso viene raccontata, ma l’occasione di crescere insieme, di condividere metodi e prassi migliori, un modo, tra altri, di cooperare.

Da Teramo a Padova, fa crescere laboratori di ricerca, facendo sì la ricercatrice, ma anche altro. Dalla fundraiser alla sorella maggiore, perché sì, servono risorse, ma vanno coltivate le relazioni. Sfida con fermezza la cultura tecnocratica e le cerchie di potere, non negandole ma offrendo alternative. Nel 2005, in piena epidemia aviaria, condivide la sequenza genetica del virus identificata dall’Istituto zooprofilattico sperimentale delle due Venezie, dove lavora, in un data base open access, causando una rivoluzione copernicana per il mondo della ricerca alimentato di soluzioni segrete e accesso alle informazioni differenziato a seconda del potere e del riconoscimento differenziato dei diversi laboratori.

Eppure, la sua apertura è scomoda, la sua determinazione fraintesa, la curiosità sul suo operato si trasforma, anche, in intercettazioni e nel 2007 Ilaria scopre l’esistenza di indagini giudiziarie sul suo conto, di cui ignorerà, in dettaglio, l’oggetto fino al 2014.

Ma lei, a differenza di un virus, è un essere vivente che deve fare i conti con ciò che sente: paura, incertezza, desiderio, voglia di ossigeno. Una donna che oltre al lavoro deve misurarsi costantemente con la sua vita privata, con una figlia che rischia la vita alla nascita, la perdita di un padre, un compagno che viene trascinato nelle accuse e che lei si sente di dover proteggere.

In questi anni, però, “fragile ma sul pezzo” non molla. Si rimette in gioco professionalmente, valutando anche altre opportunità all’estero, ma tornando sempre a scegliere l’Italia, attaccandosi ad ogni speranza di cambiare il sistema da dentro.

Per farlo, intraprende anche la via dell’impegno civico, quando viene eletta deputata nel 2013 con Scelta Civica. Un modo di stare nelle stanze dei bottoni, sperando di dare un contributo concreto al cambiamento del Paese. Eppure proprio l’Italia, quel Paese che lei sembra non essere disposta a perdere, la abbandona nel 2014, quando con l’uscita di un articolo d’indagine su L’Espresso si ritrova una trafficante di virus.

Inizia, come lo definisce lei, lo stress test delle relazioni, perde amicizie, riconoscimento, ma non smette, mai, di provare a raccontare il suo punto di vista, la sua verità, il suo obiettivo di vita.

E’ il 2016 quando, però, decide che è ora di perdere, scavallare e mettere in moto la macchina di cambiamento, perché il tempo ha il suo valore e il processo potrebbe durare ancora tre, cinque o dieci anni.

Torna sui suoi passi, sulle offerte professionali fuori dall’Italia, ritorna a candidarsi per una posizione da Direttore del Centro di eccellenza in One Health (salute integrata), in Florida, dove, già da tempo, la aspettavano. Al di là dell’oceano sembra che tutto l’incubo vissuto qui, a casa, nella sua Italia non importi a nessuno, anzi, che vogliono proprio lei. E lei cede.

Sì, cede, perché per Ilaria questa non è una vincita, ma una perdita: dover abbandonare il suo Paese è forse la fatica più grande che si trova ad affrontare “Possono portarmi in capo al mondo, ma la mia testa è collegata al cuore. E resterà sempre una testa italiana”. E questa volta è lei a dover fare una rivoluzione copernicana su se stessa, a guardarsi con un po’ di distanza e con occhi altri.

Nell’estate 2016, il 5 luglio, quando ormai Ilaria è in Florida arriva l’esito della vicenda giudiziaria: prosciolta, per insussistenza dei fatti. Un masso che diventa una bolla di sapone.

Ilaria è spaesata, guarda il cielo, terso e immenso, non è quello italiano, ma il cielo è lo stesso da tutte le parti del mondo. E’ la stessa cosa per i sogni, perché, come ci ricorda Ilaria, lo cantano anche i Beatles: “It’s been a hard day’s night, and I’ve been working like a dog” e come cani abbiamo faticato tutti insieme. Ma c’è fatica e fatica, quella per un sogno ha un peso completamente diverso”,

Per questo ci piace ritrovarci in Ilaria, cooperare può mettere fortemente in crisi il nostro chi siamo e dove andiamo, possiamo lottare per rivoluzioni copernicane importanti, ma dovremo sempre partire da quelle su noi stessi.

INTERVISTA A LUIGI – cooperatore

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Come vivi questo momento di crisi?

Per certi versi con sollievo. Siamo stati precari per molto tempo, sentendoci più in difficoltà di tanti altri. Adesso ci sentiamo allo stesso livello: siamo in difficoltà tutti. In questo siamo forse avvantaggiati: veniamo da una lunga pratica nella ricerca di equilibrio.

Cosa intendi con equilibrio?

La precarietà è un esercizio di equilibrio, innanzitutto mentale. E’ la ricerca di una posizione personale tra la realtà, l’esperienza quotidiana, e la rappresentazione che della realtà danno dall’esterno, ad esempio, i mass media che ci rappresentano continuamente sull’orlo del baratro. Magari lo siamo anche, ma questo continuo rappresentare preoccupazioni per ciò che verrà è inutile e dannoso. La lettura mediatica ci spinge ad aver paura, a proiettarci nel domani caricandoci di ansia per ciò che accadrà invece che a stare nell’oggi, nel presente. Cito solo un dato: vero è che tante persone sono in difficoltà, ma molti altri durante il lockdown hanno risparmiato e hanno oggi più risorse di un anno fa. Non è questione di dire che domani non avremo problemi: è che oggi è così. Questo è un dato che la preoccupazione per il futuro ci impedisce di vedere.

Allo stesso modo, è possibile anche cercare equilibri diversi come imprese. Quando guardiamo all’impresa con occhi oggettivi vediamo il bilancio, il fatturato, magari i debiti. Se la consideriamo nella sua dimensione di esperienza invece, cercare un equilibrio nel lavoro vuol dire anche aderire al lavoro nei suoi significati: il lavoro se lo guardiamo con gli occhi dell’esperienza è anche un elemento di senso. Trovare equilibrio significa pensare alla cooperativa dando valore a quello che nel lavoro ci ha sempre interessato, le ragioni per cui ci siamo appassionati, quello che vorremmo ci accompagnasse fino alla pensione. Per me, ad esempio, la cooperativa è stata l’esperienza dell’uguaglianza, del dare possibilità a tutti, sempre, anche nelle difficoltà dei percorsi personali e dell’impresa.

L’equilibrio che descrivi è una ricerca continua. Che cosa può minacciarlo?

La minaccia più pericolosa è l’oggettivazione. E’ guardare alla nostra storia con uno sguardo esterno, non empatico, che non tiene conto dei significati che abbiamo costruito. Il revisore di Confcooperative che ha ispezionato la cooperativa, ad esempio, l’ha guardata con distacco: ha visto che abbiamo qualche arretrato con gli stipendi, che abbiamo difficoltà finanziarie, e ci ha invitato a considerare l’ipotesi di portare i libri in tribunale. Certo, ci ha messo in crisi. Non certo perché ci ha reso evidenti i nostri limiti: la nostra situazione economica la conosciamo molto bene. Mi ha messo in difficoltà misurarmi con uno sguardo che non tiene conto delle persone, della nostra storia. Cosa cambierebbe se chiudessimo? Le persone sarebbero ugualmente senza stipendio, prive di prospettiva: perderebbero anche quello spazio di benessere che è la relazione tra noi, venire a lavorare in un posto in cui stiamo bene, in cui condividiamo le fatiche e le frustrazioni, ma anche le relazioni, la vicinanza, e la speranza che le cose si possano sistemare. Mi chiedo se il compito di chi ispeziona le cooperative sia placare le proprie ansie mettendosi al sicuro con dati oggettivi, o mettere le proprie osservazioni a sostegno di chi ci crede, di chi si impegna.

Per carità, il punto di vista oggettivo, dei numeri, esiste e lo sappiamo bene. Abbiamo sicuramente fatto anche degli errori. Ma l’oggettività della lettura non aiuta nessuno. Certo anche tra noi ci sono state persone che si riconoscevano in quell’impostazione, e hanno cambiato lavoro già da tempo. Ma noi qui accogliamo e diamo lavoro a persone fragili che pensano a questo come posto in cui stare bene, lavorare, invecchiare. Chi è rimasto è chi si aspetta di trovare in cooperativa un suo equilibrio. Qual è la realtà? Lo sguardo sindacale che da fuori ci richiama ai nostri obblighi contrattuali o la quotidianità di chi qui dentro ha trovato un posto dove stare, un accomodamento per la propria vita a volte difficile e sola?

Cos’è la precarietà? Un posto dove per ora hai preso lo stipendio tutti i mesi ma sei in balia delle scelte di altri, o un posto dove -con onestà- fin dall’inizio si è prospettata una realtà economicamente fragile ma dove le persone fragili avevano modo di costruirsi una professionalità, di darsi una rappresentazione di sé dignitosa, di essere fieri di quello che stavano facendo? Oggi quello che temiamo non è la crisi… è che qualcuno dall’esterno ci imponga una chiusura che non tiene conto di noi.

E il futuro? Come lo vedi?

Paradossalmente, fa molto meno paura a me e a noi che a tanti altri. Innanzitutto siamo abituati, da sempre alla precarietà ma anche all’apertura verso il cambiamento. Sappiamo che le cose cambiano: i contesti, le opportunità, le condizioni. E ognuna ha i suoi pregi e i suoi difetti. Un amico africano mi ha insegnato che non dobbiamo preoccuparci se piove: verrà il sole e ci asciugheremo. La pioggia passa. E certe volte stare sotto la pioggia può essere piacevole come stare sotto il sole, o viceversa stare sotto il sole può essere fastidioso come prendere acqua.  Ad ed esempio nelle difficoltà si fa più squadra, si dà più valore alle relazioni, ognuno è apprezzato per il ruolo che ricopre e per il contributo che può dare nel gruppo. Quando sei da solo sei prigioniero delle tue ansie e dei tuoi pensieri, quando siamo insieme ci curiamo e ci rassicuriamo a vicenda.

Vendiamo al cuore dell’intervista: cosa sei disposto a perdere per stare nel futuro che desideri?

Beh… la sicurezza economica l’avevamo già persa. Sono disposto a perdere lo sguardo fisso sul domani: chi vive nell’oggi è meno esposto alle ansie, e se è da solo queste ansie diventano facilmente paure, anche grandissime. Le persone più isolate e fragili sono facilmente vittime delle proiezioni delle paure degli altri, mass media in testa.

So cosa non voglio perdere: due cose, che forse sono due lati dello stesso tema. Innanzitutto la libertà di scegliere di cose voglio occuparmi qui in cooperativa: l’opportunità di imparare, di cambiare mansione, di mettermi in gioco in ruoli diversi. E poi la consapevolezza che non sono gli oggetti, i contesti, a determinare la fine (o il fine) della vita di un uomo. Io lavoro in cooperativa ma ho altri ruoli nella mia comunità e in tutti faccio sempre lo stesso lavoro: connetto, costruisco collaborazioni per costruire la comunità. Dentro e fuori dalla cooperativa, al lavoro o nella mia vita, questa cosa non cambia, non ha un confine.

In fondo le turbolenze non finiscono mai. Questa passerà e ne verranno altre, e non è certo solo l’elemento economico che genera disequilibri. Certe volte i problemi assumono la forma dei soldi, ma hanno altre sostanze che li hanno generati. Certe volte, anzi, parlare di crisi economica è un modo legittimato e facile per dire un disagio che è, ad esempio, la mancanza di uno spazio di vita o di lavoro in cui sentirsi in armonia, in cui sentiamo che la sicurezza viene da noi stessi e non dall’esterno.

Per il resto essere disposti a perdere non è frutto di un calcolo. E’ -appunto- una continua ricerca di equilibrio in cui tutto è in gioco: tempo, relazioni, risorse…

Basta pensare a noi stessi non come realtà intoccabili e vittime di circostanze sfortunate, ma come uno dei 7 miliardi di abitanti del pianeta, molti dei quali molto più sfortunati di noi. Non c’è una sola lettura della crisi, non c’è una definizione a priori di cosa e possibile e cosa no: dipende dal punto di vista che si vuole tenere. Il nostro, il mio, parte dall’attenzione alle persone. Il resto è conseguenza.

Film: INDIZI DI FELICITÀ

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INDIZI DI FELICITÀ

Regista: Walter Veltroni (2017)

Trailer: https://www.nexodigital.it/indizi-di-felicita/

Il film in sintesi:

È legittimo, è pensabile cercare di essere felici, in tempi così complessi, controversi, pieni di paure come quelli che stiamo vivendo?  Si può ancora conoscere quella inebriante sensazione di un minuto o di una vita, mentre intorno tutto sembra franare? Veltroni parte da una serie di tremende immagini di repertorio e poi chiede alla gente comune – una ventina circa gli intervistati – se, nonostante le atrocità nel mondo, si possa essere felici. Nessuna nozione filosofica; davanti alla telecamera, dentro ex fabbriche, giardini, spiagge, stadi o salotti, ci sono solo visi che raccontano la felicità che hanno provato per alcuni attimi, notizie improvvise, momenti unici, condizioni, esperienze di vita o professionali,

Perché lo proponiamo:

1) Perché tra le storie raccontate c’è quella della cooperativa Patrolline che abbiamo intervistato per questo numero del blog

2) Perché -anche se nessuna recensione lo evidenzia- gli indizi di felicità affondano le radici in difficoltà affrontate e superate, spesso con altri, e nella ricerca di un proprio sguardo autonomo sul mondo, fuori da narrazioni precostituite.

Nota: attualmente (gennaio 2021) è visibile su Nowtv. Non è disponibile in dvd.

INTERVISTA A ROBERTO MORONI, COOPERATIVA ARCA DI NOÈ

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La cooperativa per cui lavori è una realtà importante con progetti innovativi sul territorio. Come avete vissuto il lockdown?

Prendo l’esempio di un nostro progetto di punta: Cascina Bellaria che gestisce un ristorante e un ostello. Il più penalizzato è stata l’ostello perché la riduzione di turisti a Milano è stata del 70%. Prima di Covid le camere con uso cucina si vendevano a 90/100€ l’una, oggi si propongono a 40/50€ e ci litighiamo i visitatori con gli altri alberghi della zona. Per reagire abbiamo scelto di innovare, cioè di cercare altri mercati per i nostri servizi: ad esempio abbiamo riconvertito le camere dell’ostello ad alloggio per affitti temporanei a persone anziane, a chi per situazioni connesse al Covid aveva bisogno di un alloggio, a giovani in cerca di abitazioni. La strategia è stata: limitare i danni e cercare fattori innovativi.
Diverso è stato il caso della Trattoria Solidale: è un progetto che tra il 2019 e il 2020 stava andando benissimo. Anche i primi mesi del 2020 sono stati positivi, al di sopra delle nostre previsioni. Dopo il primo lockdown, a maggio, siamo ripartiti subito con la ristorazione da asporto e i mesi successivi fino ad ottobre sono andati molto bene tanto che abbiamo recuperato la perdita accumulata nel primo lockdown e quindi eravamo in linea con le proiezioni dell’anno. A fine ottobre la nuova chiusura ci ha frastornato. Anche qui abbiamo provato a lavorare su mercati diversi: valorizzare il parco in cui siamo inseriti promuovendo cucina da asporto presso il chioschetto che gestiamo, consegne a domicilio di pasti freddi monoporzione facili da riscaldare… Non è comunque bastato: il settore del food ha subito una perdita consistente e per giunta la ristorazione non corrisponde al nostro codice Ateco prevalente per cui non abbiamo potuto nemmeno accedere ai sostegni economici governativi. Insomma: un bel mucchio di problemi!

Tu personalmente come lo vivi questo momento?

Io sono abituato a programmare molto ma in questo momento è proprio impossibile. Il contesto è imprevedibile.  Da subito, in marzo, ci siamo detti che dovevamo prendere decisioni senza sapere che impatto avrebbero avuto le nostre scelte e come il virus avrebbe cambiato la nostra vita: in che modo, per quanto tempo…. L’esatto contrario della pianificazione, insomma. Io sono abituato a lavorare molto usando i budget previsionali come strumento di pianificazione (per dire… ne abbiamo già fatti quattro per il 2021), ma oggi senza avere possibilità di confronto storico ho la sensazione di essere su una macchina che non riesco più a guidare.

Come avete gestito la situazione della cooperativa sul piano operativo? Avete dovuto fare ricorso a cassa integrazione e licenziamenti?

Siamo partiti subito con la cassa integrazione (il Fis, nel nostro caso) che per alcuni di noi è ancora attivo. Abbiamo fatto molti incontri con i dipendenti on line e in presenza quando possibile, per informare continuamente e sostenere le motivazioni per andare avanti: la preoccupazione personale è stata molto forte da parte dei dipendenti perché hanno visto in crisi il loro mondo e la possibilità di avere un reddito. Abbiamo lavorato molto con la progettazione: ne facciamo sempre tanta e quest’anno è ulteriormente cresciuta. Su 2 milioni di fatturato (in diminuzione) 400.000€ sono ricavi da progettazione soprattutto legati ai cambiamenti in atto: dal bando Lets Go di Cariplo alle vacanze per persone disabili in ostello a Milano con la Fondazione Comunitaria Milano. Questo ci ha permesso di mantenere l’equilibrio nel bilancio che è fragile dal punto di vista della patrimonializzazione. Questo è da sempre un nostro problema, ma oggi ci mette in condizione di non poter reggere grosse perdite.
Abbiamo elaborato una serie di misure per ottimizzare le risorse sia umane che tecniche e limitare il danno. Quindi abbiamo fatto parecchi incontri come direzione e cda, anche con i dipendenti, informando sul trend del bilancio che aveva una previsione molto negativa a maggio, mitigata dopo l’estate e a fine anno arrivata a un sostanziale pareggio.

Rispetto ai ragionamenti che abbiamo fatto fin qui, qual è la perdita che sei disposto ad accettare per costruire il futuro che vorresti per la cooperativa?

Il futuro ci chiede di innovare molto e quindi sarà necessario dedicare a questa funzione molto più tempo di quanto siamo già abituati a fare. Dovremo tutti, anche io, pensare alla cooperativa, aggiungere tempo ed energie a fianco all’ordinario e farci venire idee particolari anche cercando di immaginare dove ci saranno risorse domani e su quali nuovi mercati (recovery found). Poi dovremo necessariamente incrementare il patrimonio con obiettivi di sviluppo e stabilità.

E’ cambiato il tempo che dedichi al lavoro?

Non è solo questione di quantità. Prima era un tempo più programmato e quindi più agevole. Oggi è un tempo pieno di strappi: ci sono momenti in cui le attività devono essere più produttive e in quel momento devi dare il 200%, e devi trasmettere questo messaggio di investimento e flessibilità anche ai lavoratori. Chi lavora nel settore food -ad esempio- nell’estate deve sfruttare il periodo positivo anche lavorando 10/12 ore al giorno, mentre nei mesi invernali c’è più calma.

Siete tutti coinvolti allo stesso modo in questo cambiamento di organizzazione del lavoro?

In termini di principio si: abbiamo spiegato subito quali atteggiamenti e disponibilità servivano per ottimizzare il lavoro e ‘salvare la baracca’. Chi era in Fis ha accettato la situazione e la cooperativa da parte sua ha integrato il contributo portandolo all’80% della retribuzione, anticipando anche l’erogazione. In altri casi abbiamo chiesto alle persone di essere flessibilità sulle mansioni ad esempio dedicandosi alle sanificazioni per cui avevamo moltissime richieste, anche in contesti in cui il Covid era presente. In questo caso la cooperativa ha investito impiegando dispositivi di protezione individuali in modo anche superiore a quelli indicati dalle norme di sicurezza, ma le persone hanno risposto positivamente.

Proviamo ora a ribaltare l’idea di perdita con l’idea di rinuncia: c’è qualche cosa che ti sembra utile perdere -anche se non è piacevole- in vista di scenari migliori?

Personalmente sono sempre stato un fautore delle piccole realtà cooperative. Oggi penso che dobbiamo rinunciare all’autonomia delle realtà di piccole dimensioni a favore delle aggregazioni in realtà più grandi. Il Covid ci ha fatto vedere il limite delle piccole cooperative e la loro fragilità. Piccolo è bello, il modo di lavorare e di funzionare di queste organizzazioni è a misura delle leadership. Oggi però è evidente come questa strategia sia debole, anche se continuo a ritenere che non sia opportuno arrivare a dimensione troppo grandi che di cooperativo hanno davvero poco. Ci sono parecchi strumenti di collaborazione e diverse formule che permettono la messa in rete di esperienze e competenze.

INTERVISTA A CAROLINA BERETTA – COOPERATIVA PATROLLINE

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Carolina, abbiamo pensato di intervistarti perché la tua storia è particolare. Vieni da una cooperativa di Workers By Out: siete nati da una crisi. La vostra azienda stava fallendo, e voi l’avete rilevata investendo i vostri risparmi e le liquidazioni per rilevare l’azienda e continuare a produrre antifurti. Ci vuoi dire in due parole qualcosa in più sulla vostra storia?

Beh… è stata ed è per noi una grande sfida che ci ha cambiato la vita; è una storia di persone, di volontà, di sacrifici, di paura e di coraggio, ma soprattutto di cooperazione. Siamo sempre stati dipendenti, con la sicurezza dello stipendio a fine mese, delle ferie in estate, di essere pagati se stavamo a casa con la febbre. Poi abbiamo cominciato a non dormire più la notte perché da un giorno all’altro, con la crisi della azienda in cui lavoravamo, abbiamo cominciato a non sapere più se saremmo riusciti a pagare il mutuo, a comprare i libri di scuola ai figli e i nostri sogni, la nostra quotidianità, sono andati in mille pezzi. A 50 anni, questa l’età di molti di noi, ci siamo trovati a dover ricominciare tutto da capo.

In questi momenti ci si sente avviliti, deboli, doloranti. E’ un po’ come morire. Ma piuttosto che lamentarci, abbiamo deciso di rimboccarci le maniche e di credere che avremmo potuto continuare a lavorare, a produrre allarmi, che era la cosa che sapevamo fare meglio. Abbiamo deciso di assumerci tutto l’onere e la responsabilità di una rinascita e facendo appello a tutto il nostro coraggio siamo diventati protagonisti di scelte difficili.

Abbiamo dovuto recuperare contemporaneamente fiducia e risorse economiche. Quando bussi alla porta di una banca, di un fornitore o di un cliente non basta essere convincente: devi abbattere quel muro legittimo di scetticismo e diffidenza verso un soggetto nuovo che si muove in una realtà incerta e difficile. Abbiamo bussato a centinaia di porte, stretto centinaia di mani, percorso più di 3000 chilometri per sondare il terreno e per capire cosa era rimasto di tutto quello che avevamo seminato in passato.

Certe volte le risposte sono state durissime, difficili da accettare, ma non abbiamo pensato mai -neanche per un solo istante, di chinare la testa, di abbandonare il nostro progetto anche se ci sono stati momenti faticosi, in cui la tentazione di fermarsi si è fatta sentire. Ma abbiamo resistito: forse perché davvero l’unione fa la forza.

Abbiamo insistito per riottenere la nostra credibilità. Certo è sparito il cartellino per timbrare l’entrata in azienda, è scomparsa l’idea di lavorare 8 ore al giorno, di limitarci ciascuno alla propria mansione. Ci siamo abbassati lo stipendio. Abbiamo messo a frutto tutto quello che avevamo imparato in passato. Via via lo spirito di sacrificio ha iniziato a convivere con l’idea che potevamo davvero farcela e con la soddisfazione di darci da fare per qualcosa di nostro.

Piano piano le banche hanno iniziato ad ascoltarci e siamo stati capaci di trasmettere ai nostri interlocutori quella fiducia che noi per primi stavamo ritrovando. Qualche cliente non ci ha abbandonato. Qualche fornitore ha deciso di continuare a credere in noi. Abbiamo incontrato l’Italia migliore, quella delle brave persone, quell’Italia che -come dice la nostra Costituzione- si fonda sul lavoro, nobilita e protegge il Made in Italy.

Oggi Patrolline, la nostra cooperativa, è produttiva, virtuosa, semplice e dà da vivere a 17 famiglie. Ci piace credere che la nostra storia, di cui siamo tanto orgogliosi, possa ispirare anche altri in questo momento di crisi.

E oggi? Come vivi questo momento? In che modo stai attraversando la crisi?

Per me è un momento di grande disorientamento. Era inizio febbraio 2020 quando, insieme al mio collega e socio Angelo, mi recavo in Israele per incontrare alcuni potenziali clienti che avevano dimostrato interesse nei nostri prodotti e sapere che quello sarebbe stato il mio primo ma anche ultimo viaggio del 2020, a pensarci adesso stento ancora a crederci.

Il 21 febbraio il nostro mondo è cambiato ed è successo partendo da una cittadina, Codogno, situata proprio nella regione in cui vivo e lavoro e che rappresenta l’esempio perfetto del mondo globalizzato, interconnesso. La Lombardia luogo di produzione, dove le botteghe artigianali e le piccole e medie imprese valorizzano e danno risalto al Made in Italy, di traffico, di scambi, di arte, di cultura e quindi per sua natura esposto al contagio. Aperto alla diffusione di un virus sconosciuto, imprevedibile, mortale nelle sue forme più gravi che ci ha colpiti di sorpresa, impreparati, scettici sulla sua reale forza distruttiva. All’inizio non mi sono tanto preoccupata perché alla fine entrambi i miei figli, residenti all’estero in Europa, mi dicevano che da loro la situazione era relativamente tranquilla, il virus non era così presente come da noi e anche tra i miei parenti, amici e colleghi nessuno si era infettato o aveva avuto casi di Covid-19 in famiglia, cosa che invece purtroppo è accaduta in questa seconda ondata dove mi sono trovata a piangere la perdita di persone a me tanto care.

Dal punto di vista dell’impresa, la notizia di dover chiudere durante il lock-down ci ha dato gli stessi pensieri e sensazioni di quando il nostro datore di lavoro ci comunicò, a Marzo del 2015, che da lì a poco avrebbe portato i libri in tribunale e che di tutto quello che si era costruito in 30 anni di vita della azienda non sarebbe rimasto più nulla. Per fortuna anche in questo caso il sostegno tra noi soci -soprattutto durante le riunioni online- è sempre stato di aiuto anche a chi magari aveva delle situazioni abitative più complesse o non se la sentiva di relazionarsi più di tanto. Questo a volte ha creato qualche malumore, ma la cosa bella è che abbiamo sempre parlato, chiarito e risolto gli attriti e appena è stato possibile abbiamo ripreso la voglia e la forza di ricominciare a seminare in vista della ripartenza.

Con la convinzione che sempre più persone si sarebbero approcciate al “mondo virtuale” abbiamo aperto sul nostro sito aziendale una vetrina e-commerce, abbiamo concluso degli accordi strategici con due società italiane di rilievo internazionale e finanziariamente parlando ci siamo adoperati per riuscire ad ottenere tutti gli aiuti che lo Stato stava mettendo a disposizione per le aziende costrette alla momentanea chiusura.

Queste azioni devo ammettere mi hanno resa più forte, mi hanno dato tanta energia e voglia di fare e unite alla consapevolezza della maturazione che avviene nel processo dall’essere dipendente a diventare imprenditore in qualche modo hanno contribuito ad accrescere la mia autostima.

Siamo stati in grado di onorare gli impegni assunti, abbiamo soddisfatto la clientela non appena la produzione è ripartita, le banche ci hanno concesso dei finanziamenti alle nostre condizioni e sui nostri canali social abbiamo ricevuto numerosi apprezzamenti: cose che oggi sono motivo per noi di grande soddisfazione anche agli occhi di chi ci guarda da fuori.

Credo che se avessi vissuto questa situazione da dipendente certamente avrei provato più ansia e paura perché non avrei avuto il controllo della situazione e non avrei saputo se la cassa integrazione mi sarebbe stata pagata dall’azienda.

Mentre scrivo tutto questo sono più che mai consapevole dei miei privilegi e mi considero una persona fortunata, ho un tetto sopra la testa e vivo in una casa accogliente circondata da un gran bel giardino che durante il lock-down, negli interminabili fine settimana, mi ha permesso di evadere e di non stare rinchiusa dentro le mura come purtroppo è accaduto a tanta gente ma soprattutto non mi sono sentita mai sola, grazie alla tecnologia della quale non sono certamente una grande fanatica ma che è servita allo scopo e alle chat di gruppo che mi hanno permesso durante le festività di Pasqua anche di giocare a tombola con gli amici o semplicemente di fare festa.

 

Cosa vuoi trovare dopo la crisi: quali desideri hai per te e il tuo futuro, in che stato d’animo, situazione vorresti trovarti quando la turbolenza di questa fase si sarà acquietata

Un tema che oggi mi fa molto riflettere è quello di chi è senza casa, di chi improvvisamente -per colpa di questa pandemia- ha perso il lavoro, ha visto precipitare nel baratro una vita di sacrifici.

I mezzi di comunicazione ci ripetono instancabilmente la necessità di assumerci la nostra responsabilità, specie quella che abbiamo nei confronti della collettività.

L’epidemia si è presa tutto: le homepage dei giornali, i discorsi a cena, le piazze, i cinema, i teatri, le biblioteche… l’invisibile è riuscito in poche settimane a coinvolgere l’intera umanità nella stessa condizione e sotto molti punti di vista, questa crisi ci ha fatto capire fino a che punto siamo interdipendenti gli uni dagli altri. Forse lo sapevamo già ma il ritmo assillante della nostra vita ce l’ha fatto in qualche modo dimenticare.

Questo brutto mostro invece ci ha ricordato che siamo tutti collegati, e siamo connessi alla Natura che, senza la presenza invadente dell’uomo, si è presa una sorta di rivincita ma che senza un vero e sincero impegno da parte di tutti sarà ancora e continuamente sfruttata e depredata delle ricchezze più belle.

Trovo che oggi, inevitabilmente, dobbiamo porre l’accento sulla comunità, anziché sull’individuo e imparare a prenderci cura l’un dell’altro in qualsiasi ambito e provare concretamente ad essere più “buoni” …..finché c’è tempo.

 

Citazioni: DOVE SI RICONOSCE LA PROPRIA FORZA

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Dove si riconosce la propria forza.

Nelle sconfitte. Dove gli insuccessi furon dovuti alla nostra debolezza, ci disprezziamo e ci vergogniamo di essa. Dove invece siamo forti, disprezziamo la nostra sconfitta, ci vergogniamo della nostra malasorte. Abbiamo mai conosciuto la nostra forza nella vittoria e nella fortuna?! Chi non sa che nulla più di essa palesa le nostre più profonde debolezze? Chi dopo una vittoria in battaglia o in amore, non ha sentito trascorrere su di sé come un estasiato brivido di debolezza la domanda: E questo proprio a me, al più debole? Ben diverse quelle sconfitte in serie, nelle quali impariamo tutte le finzioni del risollevarsi e ci bagniamo nell’umiliazione come nel sangue del drago. Si tratti della gloria, dell’alcool, del denaro, dell’amore – dove uno possiede la sua forza, qui egli non conosce il suo onore, non teme il ridicolo e non ha ritegno. […] Un’esistenza corazzata. Chiusi dentro un carro armato diventiamo sordi e inaccessibili, cadiamo in tutti i fossati, attraversiamo tutti gli ostacoli, solleviamo fango e deturpiamo la terra. Ma solo dove siamo così insozzati siamo invincibili.

Walter Benjamin, Strada a senso unico, Edizioni Einaudi, Torino, 2006.

Libri: LA PESTE

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Autore: Albert Camus

Pubblicato da: Bompiani

Perché lo proponiamo: Se l’effetto metaforico e distopico di questo grande classico della letteratura sembra essere, a una lettura odierna, travolto dall’attualità e paradossalmente trasformato in cronaca il racconto della pestilenza che travolge la città di Orano in quelle pagine trova oggi una sua nuova e rinnovata forza. Un classico che non a caso, in questo anno, ha visto una crescita esponenziale delle vendite. La metafora della pestilenza, attraverso gli occhi del protagonista il medico Rieux, diventa uno specchio ustorio nel quale osservare il riflesso di questi mesi e non solo. Il tema della responsabilità, della comunità, degli affetti, della condivisione tornano insieme a fugaci immagini di felicità, lampi nella città assediata.

Consigliamo di vedere la lezione di Alain de Botton, School of life, Cosa ci insegna La Peste di Camus su Internazionale

https://www.internazionale.it/video/2020/04/24/la-peste-camus-epidemia

Libri: FUTURI POSSIBILI. IL DOMANI PER LE SCIENZE SOCIALI DI OGGI

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Autore: Vincenza Pellegrino

Pubblicato da Ombre Corte

Perché lo proponiamo: il libro affrontando il concetto di futuro come prodotto culturale, come insieme di rappresentazioni del domani, si interroga su come questi tempi, caratterizzati da una profonda e pervasiva crisi, possano essere momento, occasione, per interrogare nuovamente il nostro rapporto con il futuro e il desiderio tracciando e costruendo nuove traiettorie, nuovi orizzonti e possibilità. Questo partendo dall’analisi del lutto rispetto a modelli e visioni del domani che, ormai morenti e privi della capacità di tracciare dei percorsi possibili, non hanno ancora lasciato il posto a un nuovo orizzonte. Eppure è questa una riflessione irrinunciabile, necessaria e urgente che, seppure in forme ancora aurorali e minoritarie, sta cominciando a prendere forma partendo dalle nuove generazioni. “Di fronte ai continui ostacoli, il vento, le intemperie, le pressioni degli altri uomini, ci sono grossomodo tre tipi di reazione. Si può tenere la posizione; fuggire; attaccare […]. Il così detto tipo estroverso, l’uomo che non ha bisogno di utopie, sceglie di tenere la posizione. Gli altri due tipi di reazione hanno avuto la loro espressione in tutte le utopie storiche”. Un libro avvincente che permette di gettare uno sguardo su nuove linee di fuga e direttrici d’attacco, proprio quando la posizione pare essere persa.

Libri: QUESTO GIOCO DI FANTASMI. STORIE  VERE DI UN SOPRAVVISSUTO

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Autore: Joe Simpson

Pubblicato da I Licheni

Perché lo proponiamo: Joe Simpson classe 1960 è alpinista, laureato in Lettere e filosofia, attivista di Greenpeace e scrittore. Conosciuto dal grande pubblico soprattutto per il suo primo romanzo autobiografico La morte sospesa, diventato film nel 2003, racconta qui le origini della sua passione e ossessione in una autobiografia nella quale le ascensioni, le amicizie, le ferite e le cicatrici unite alla roccia, al vento e al ghiaccio intervengono nel dare forma ai tratti di un profilo sofferto e vivo che interroga profondamente il rapporto con sé stessi e il senso che è possibile dare alla propria esistenza. Un libro avvincente, asciutto, a tratti crudele nella sua onestà. “L’alpinismo non è un’avventura che si sceglie perché, nonostante i pericoli e i disagi è più facile da affrontare delle difficoltà della vita ordinaria, come disse Christopher Isherwood a proposito della ricerca del passaggio di Nord Ovest. Lungi dall’evitare le difficoltà di vivere, il pericolo consente di vedere la vita ordinaria nella sua vera prospettiva, di apprezzarla e considerarla preziosa. L’urgenza sta più nel partire che nell’arrivare; più nella decisione di andare e fare che nel raggiungimento dell’obiettivo. È nascosta nella sirena lugubre della nave, nel ruggito del motore di un jet, nel fischio del treno che attraversa lande deserte verso ignoti futuri. Può darsi che io sappia che cosa cercavo, cosa volevo. So molto della paura, qualcosa della morte. Conosco le mie forze e le mie debolezze. A volte mi pare di sapere che cos’è che mi chiama, poi lo perdo di nuovo […] importano i giorni in cui si guarda al di là, nel mondo in cui sono entrati i fantasmi e si torna con una più piena visione del vivere”. Un libro sofferto, privo di autocompiacimento, che diventa una potente metafora per interrogare le ferite, le fragilità e il coraggio necessari a dare senso alla propria vita, nella ricerca di nuove imprese.

Libri: LETTERE A UN GIOVANE POETA – LETTERA A KAPPUS DEL 12 AGOSTO 1904

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Autore: Rainer Maria Rilke

Pubblicato da:

  • Adelphi (insieme ai testi ‘Lettere a una giovane signora’ e ‘Su Dio’)
  • Mondadori

Link: se volete leggere solo questa lettera, tra gli altri siti, la potete trovare anche qui: https://maria-angela-padoa-schioppa.it/archivio/testi/rilke-solitudine-e-crisi4.pdf

Perché la proponiamo:

Rilke affronta la crisi come percorso di trasformazione dando grande valore umano alla solitudine, alla tristezza, allo sconcerto. ‘E se solo indirizziamo la nostra vita secondo quel principio, che ci consiglia di attenerci sempre al difficile, quello che ora ci appare ancora la cosa più estranea, ci diventerà la più fida e fedele.’

Canzoni: COSA SEI DISPOSTO A PERDERE?

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Autore: Jovanotti (Lorenzo Cherubini)

Link: https://www.youtube.com/watch?v=LvG12qnnY_g

Perchè la proponiamo:

E’ un atto dovuto: il titolo di questo numero del blog viene da qui. E poi fa una connessione essenziale: ‘mi fido di te. Cosa sei disposto a perdere?”

Nota:

esiste un’altra canzone con lo stesso titolo, decisamente più rock: è cantata da ‘Le cattive abitudini’

Canzoni: IL PESO DEL CORAGGIO

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Autrice: Amara (Erika Mineo)

Linkhttps://www.youtube.com/watch?v=XltdvVTTHIg

Perchè la proponiamo:

Abbiamo selezionato alcuni versi della canzone per spiegare le ragioni della scelta:

“Siamo il silenzio che resta dopo le parole
Siamo la voce che può arrivare dove vuole
Siamo il confine della nostra libertà
Siamo noi l’umanità
Siamo il diritto di cambiare tutto e di ricominciare

Ognuno gioca la sua parte in questa grande scena
Ognuno ha i suoi diritti
Ognuno ha la sua schiena
Per sopportare il peso di ogni scelta
Il peso di ogni passo
Il peso del coraggio”

Nota:

la canzone è stata resa celebre da Fiorella Mannoia, ma noi abbiamo scelto di presentarvela dalla voce di Amara, che ne è l’autrice: una donna che ha fatto della ricerca personale una cifra distintiva. Qui una versione essenziale, voce e piano, registrata presso la Fraternità di Romena.

Film: RAISING PHOENIX. LA STORIA DELLE PARALIMPIADI

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Regista: Ian Bonhôte and Peter Ettedgui

Il documentario in sintesi:

Il documentario attraverso materiali d’archivio; interviste ad atleti affermati quali l’italiana Bebe Vio, gli australiani Ellie Cole e Ryley Batt, il francese Jean-Baptiste Alaize, gli statunitensi Tatyana McFadden e Matt Stutzman, l’inglese Jonnie Peacock, la cinese Cui Zhe e il sudafricano Ntando Mahlangu (Sudafrica); riprese degli allenamenti, delle gare unite a quelle della vita degli atleti restituisce un ritratto potentissimo che sembra andare anche oltre le sue iniziali intenzioni. Raising Phoenix non è infatti solo la storia delle paralimpiadi come non è solo la storia di un evento che contribuisce alla lotta per i diritti delle persone con disabilità.

L’emozione che suscita va forse ricercata non tanto, o almeno non solo, nell’ammirazione per quello che questi atleti hanno saputo fare, comunicare e rappresentare ma soprattutto nel fatto che quelle storie mettono in scena e testimoniano la lotta per trovare una propria realizzazione, una propria sovranità nel mondo, una compiuta espressione di sé. Lasciando da parte l’abusato concetto di resilienza qui la potenza del messaggio non è nel sottolineare una ritrovata pace e consolazione, è piuttosto nel rappresentare lo sforzo continuo, indomito, a tratti disperato e gioioso di questa lotta senza fine che è allo stesso tempo esperienza di tutti.

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