Testimonial: Mimmo Lucano

Comunità è l’opposto di immunità. Entrambe congiunte dal concetto bivalente di munus che è sia dono sia obbligo, come ben illustra Esposito nel saggio Communitas, che troverete negli approfondimenti. 

E chi allora può essere un testimonial di una comunità disposta a perdere e a perdersi, a causa di un debito, un dovere, che la vincola non solo a sé stessa, ma ad altri? 

Domenico Lucano, classe 1958, sindaco di Riace per tre mandati dal 2004 al 2018, è un pariah, un sindaco senza partito, un politico con anima da imprenditore sociale, un uomo di comunità che il suo dover dare lo sente profondamente. 

Gli altri per Domenico sono quelli che non ci sono più, che lasciano una Riace che si spopola, ma gli altri sono anche quelli che arrivano da lontano, che sono diversi, che non hanno nulla in comune col luogo in cui arrivano. 

L’idea Riace non è però un discorso teorico, è azione politica, nata dal leggere sistematicamente dei problemi e dall’elaborarne soluzioni, spesso spontanee. 

L’idea era partita da lontano, da un veliero carico di rifugiati curdi arrivati sulla spiaggia di Riace e che hanno fatto nascere l’idea di accoglienza come soluzione ai problemi di tutti, di chi cerca casa e di chi vive un territorio che si spopola. L’idea di recuperare le case abbandonate del borgo “è stata naturale, logica”, la racconta così Domenico. Così come quella di dare una mano a chi avesse bisogno, “una questione di umanità”. Eccolo, il munus condiviso.  I flussi migratori e un borgo da rilanciare sembrano problemi inconciliabili, ma che nell’intrecciarsi possono darsi risposte e in queste risposte essere comunità. 

Nel fare, l’idea è divenuta modello di accoglienza, riconosciuta più fuori che dentro il Paese. L’attuazione, come spesso racconta Domenico, era lineare, quasi banale. Riace aveva gli spazi e aveva bisogno di nuove forze, umane e produttive. All’orizzonte c’erano barche cariche di umani in cerca di nuove sfide, pronti a mettersi all’opera e dei fondi pubblici per costruire sistemi di accoglienza. E così la coniugazione perfetta. Due parti che sentono di avere qualcosa da dare, come dono e come obbligo. L’obbligo di entrambi di immaginarsi un futuro diverso, pur rischiando di perdere parte della propria identità. 

Il metodo Riace è geniale proprio nella gestione socioeconomica dei migranti, valorizzati come cittadini impegnati e produttivi e motore di sviluppo per tutto il paese. I 35 euro procapite destinati al sostentamento di profughi e richiedenti asilo vengono trasformati in cosiddette “borse lavoro” che danno lavoro a cooperative di cui fanno parte anche riacesi, dando la possibilità a questi uomini e donne di imparare un mestiere che gli assicuri un piccolo stipendio. Le risorse economiche rimesse in circolo creano una rete di esercizi commerciali convenzionati che permette ai migranti di provvedere personalmente con quello stipendio alle spese domestiche tenendo vivi dei negozi destinati fatalmente alla chiusura per lo spopolamento del paese, da anni in crisi per l’emigrazione degli abitanti verso altre regioni. 

Ma quei soldi necessari ad alimentare il motore di questa macchina arrivano con ritardi sempre più significativi e il sindaco Lucano fa nuovamente di necessità virtù inventandosi una moneta locale virtuale, spendibile solo a Riace, fatta di banconote raffiguranti il volto di personaggi come Peppino Impastato, Che Guevara o il Mahatma Gandhi.

Il metodo funziona talmente bene ed è talmente coinvolgente che molti dei migranti accolti decidono di fermarsi a Riace, e così facendo anche la convivenza con i riacesi è pacifica e l’integrazione totale. 

Un po’ per volta, riaprono botteghe e laboratori, si scongiura la chiusura della scuola e si aprono nuovi servizi, come un ambulatorio medico, si rivedono turisti e visitatori, si dà vita a festival e ad iniziative culturali che creano movimento, vita, opportunità.

La comunità, a Riace, è diventata così il patto sociale che si era creato, lo scambio tra chi già c’era e chi era arrivato. Un patto che dura fino al 2016, sostenuto e riconosciuto direttamente sia dalle istituzioni Prefettura, Governo, sia dai cittadini, tanto che Domenico è riconfermato per tre mandati.

Un sistema di comunità che man mano si adatta ed elabora soluzioni alle resistenze e ai problemi che incontra, ad esempio dotandosi di una moneta locale che convertisse e colmasse i ritardi nel percepire i fondi ministeriali sull’accoglienza. 

Questa tenacia, però, non è vista di buon occhio e nel tempo le resistenze aumentano, anche per la profonda crisi economica che colpisce sia il Paese sia i servizi di accoglienza. Domenico si trova accusato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e di molto altro, da lì non cerca vie di fuga, non cede alla ricerca dell’immunità, ma resta fedele alla sua comunità, al suo senso di dover dare: “se e quello di cui mi si accusa è di aver dato casa a disperati e agli ultimi del mondo, io lo rifarei”. Passa così, dall’arresto al divieto di dimora nella sua Riace, fino al tribunale del riesame definisce “inconsistente” il quadro giuridico delle accuse, annullando il quadro penale del procedimento.

Ritrova parte della sua libertà, perdendo il consenso, le elezioni, quella comunità. Con la forza di continuare a trovare nuovi doni e nuovi obblighi verso nuove comunità.

Libri: RIACE, UNA STORIA ITALIANA

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 Autore: Chiara Sasso

Pubblicato da Edizioni Gruppo Abele 2018

Link: qui una recensione del libro: https://www.gruppoabele.org/event/uscita-del-libro-riace-una-storia-italiana/

Perché lo proponiamo: la storia di Riace è quella di un metodo ‘sovversivo’ per costruire comunità così radicale da mettere in discussione poteri e ideologie

 

Libri: TRAM 12 – GORIZIA CALLING 

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Autore: Maria Elisabetta Ranghetti

Pubblicato da (Edikit 2020)

Link: qui potete trovare una buona presentazione del libro: https://filosofiaenuovisentieri.com/2013/05/29/la-communitas-secondo-roberto-esposito/

E qui potete vedere lo stesso don Paolo che presenta il libro alla Libreria dei navigli di Milano https://www.facebook.com/watch/live/?v=336633184072096&ref=watch_permalink

Perché lo proponiamo: la storia di Don Paolo a Baranzate, piccolo Comune in cui convivono 76 etnie, è una sfida continua a rimettere in discussione le nostre certezze e un invito caldo e appassionato alla vicinanza tra uomini. 

Libri: COMMUNITAS. ORIGINE E DESTINO DELLA COMUNITÀ

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Autore: Roberto Esposito

Pubblicato da Piccola Biblioteca Einaudi

Link: se volete leggere una sintesi ben fatta del lavoro di Roberto Esposito, la trovare qui: https://filosofiaenuovisentieri.com/2013/05/29/la-communitas-secondo-roberto-esposito/

Perché lo proponiamo: è un excursus articolato e appassionante nel dibattito filosofico internazionale sul tema della comunità, partendo da una consapevolezza: l’assenza di legame con il significato originario ed etimologico di cum-munus. Un viaggio alla scoperta di come il concetto di comunità sia lontano da ogni forma di proprietà, non sia un pieno, né un territorio compatto, ma un vuoto, un debito e un dono verso gli altri.

Articoli: COMUNITA’

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Autore: Festival d Filosofia di Modena, carpi e Sassuolo – Edizione 2009

Link: http://www.festivalfilosofia.it/index.php?mod=c_menu&id=137&canale=2009

Perché lo proponiamo: un ricchissimo repertorio di video delle lezioni magistrali del Festival attraversano i diversi temi che il concetto di comunità sollecita, spesso evidenziando il tema di un necessario cooperare. Da Umberto Galimberti a Marc Augè, da Stefano Rodotà a Vandana Shiva.

Articolo: GENIUS LOCI E TERRITORIALITÀ

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Autore: Adriano Olivetti (2017)

Link: https://www.geniusfaber.it/news/genius-voce/genius-loci-territorialita/

Perchè lo proponiamo: è un articolo che parte dalla ricerca del ‘genius loci’, il dio minore che abita il territorio, per costruire attorno a questa ritrovata identità locale un modello di sviluppo

Articoli: COME FUNZIONA IL MODELLO RIACE: CASE, MONETA UNICA E LAVORO

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Autore: Askanews (2018)

Link: https://www.askanews.it/cronaca/2018/10/03/come-funziona-il-modello-riace-case-moneta-unica-e-lavoro-top10_20181003_130552/

Perchè lo proponiamo: una descrizione sintetica ma precisa di una esperienza che ha trasformato il ‘problema dei migranti’ in un progetto di benessere per tutti

Canzone: OGGI ESSERE RIVOLUZIONARI SIGNIFICA RALLENTARE

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Autore: Franco Armino 

Perché la proponiamo: è una poesia, non una canzone. Ci è piaciuta l’enfasi sulla lentezza perché far germogliare le comunità è una capacità da coltivare e che richiede tempo di ascolto e messa in relazione.

Abbiamo bisogno di contadini,

di poeti, gente che sa fare il pane,

che ama gli alberi e riconosce il vento.

più che l’anno della crescita, ci vorrebbe l’anno

dell’attenzione.

Attenzione a che cade, al sole che nasce

e che muore, ai ragazzi che crescono,

attenzione anche a un semplice lampione,

a un muro scrostato.

Oggi essere rivoluzionari

significa togliere

più che aggiungere, rallentare

più che accelerare,

significa dare valore al silenzio, alla luce,

alla fragilità, alla dolcezza.

Canzone: IL PESO DEL CORAGGIO

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Autore: Amara (Erika Mineo) e Maria Luisa De Prisco

Interprete: Fiorella Mannoia (2019)

Link: https://www.youtube.com/watch?v=tkXnS9BL6e4

Perchè la proponiamo: ve lo diciamo con qualche verso che da solo racconta molto:

ci si dimentica

che ognuno ha la sua parte in questa grande scena

ognuno ha i suoi diritti

e ognuno ha la sua schiena

per sopportare il peso di ogni scelta

il peso di ogni passo

il peso del coraggio

Film:: UN PAESE IN CALABRIA

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Regista: Shu Aiello e Catherine Catella  (2016)

Trailer: https://www.bofilm.it/film/a-village-in-calabria/

Il film in sintesi: La storia di un paese calabrese svuotato dall’emigrazione e tornato a vivere grazie all’accoglienza, in un documentario che ne descrive le vicende dando la parola ai protagonisti

Perché lo proponiamo: a Riace la comunità è rinata considerando risorsa ciò che altrove è problema: i flussi migratori

Nota: allo stesso link sono disponibili i contatti per organizzare una proiezione

Film: JIMMY’S HALL – UNA STORIA D’AMORE E LIBERTÀ

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Regista: Ken Loach (2014)

Trailer: https://www.youtube.com/watch?v=g0-mD_Lfjl4

Il film in sintesi: Nel 1921, un’Irlanda sull’orlo della guerra civile, Jimmy Gralton aveva costruito nel suo paese di campagna un locale dove si poteva danzare, fare pugilato, imparare il disegno e partecipare ad altre attività culturali. Tacciato di comunismo era stato costretto a lasciare la propria terra per raggiungere gli Stati Uniti. Dieci anni dopo Jimmy vi fa ritorno e sono i giovani a spingerlo a riaprire il locale Qui una descrizione più dettagliata: http://www.storiadeifilm.it/storico/politico/ken_loach-jimmy_s_hall(sixteen_films_element_pictures_why_not_productions-2014).html

Perché lo proponiamo: perché racconta il modo in cui uno spazio di aggregazione ha cambiato la vita di una comunità, e ancora di più quella di chi lo ha frequentato

Nota: il film è ispirato alle vicende di una persona realmente esistente… e a noi ricorda la storia di Don Paolo

Intervista a Giacomo Massa

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Classe 1986, Giacomo Massa diviene sindaco di Gottolengo – paese della Bassa Bresciana di circa 5200 abitanti – nel 2012, a soli 26 anni: è il Sindaco più giovane d’Italia. Nel 2017 viene rieletto con l’84,6% dei voti: una sorta di plebiscito intergenerazionale. “Quando chiacchieravo con gli amici, pensavamo spesso alle cose che, insieme, avremmo potuto migliorare del Comune nel quale vivevamo: si andava dal campetto da calcio a sette, a cose più ampie e strutturate. Da sempre la gestione del territorio mi ha entusiasmato, non tanto e non solo dal punto di vista politico, ma anche e soprattutto amministrativo, concreto”. 

Giacomo si è formato presso l’Istituto Salesiano Don Bosco di Brescia ed è cresciuto con il mantra “Vi raccomando: bravi cristiani e onesti cittadini”. Avevo letto a fine gennaio una sua intervista pubblicata sul Giornale di Brescia nella quale parlava degli effetti del Covid nel Comune che amministra; ma, leggendo tra le righe, quell’intervista raccontava molto di più. Narrava di un’idea di comunità molto precisa. E così l’ho contatto per parlarne più approfonditamente. Giacomo ha accolto con piacere e grande disponibilità la mia richiesta di una chiacchierata.   

Il Giornale di Brescia dello scorso 31 gennaio pubblicava una tua intervista dal titolo “Prevenzione e protezione binomio necessario all’azione”: puoi spiegarmi meglio questo concetto in relazione alla comunità che amministri? Cosa intendevi?

Durante tutto questo lungo anno la strategia di comunicazione legata al Covid-19 si è enormemente basata sui concetti di legge, ordine, limitazione, imposizione. Sebbene, ovviamente, il rispetto delle regole sia stato e sia fondamentale, ritengo che troppo poco si sia parlato di prevenzione e, soprattutto, di coinvolgimento della comunità nel definire le regole che la stessa comunità è chiamata poi a rispettare. Fondamentale è fare sentire colmato il bisogno di protezione delle persone, che però devono sentirsi coinvolte nei meccanismi che vengono implementati per proteggerle. 

A mio avviso sarebbe fondamentale iniziare ad utilizzare un linguaggio che non racconti di una sudditanza e di una applicazione passiva della norma. Si tratta di un approccio culturale differente, assolutamente traslabile a situazioni altre rispetto alla pandemia: a livello locale il coinvolgimento è fondamentale, sempre. Coinvolgimento e co-responsabilità sono centrali: solo puntando su questi concetti si favorisce un approccio proattivo di tutti coloro che abitano la comunità.

 

Nella medesima intervista parlavi degli effetti della globalizzazione nella comunità di cui sei Primo Cittadino. Quali legami vedi – appunto – tra globalizzazione e cambiamento della tua comunità?

Il Covid, è evidente, ha palesato una forte connessione locale-globale. Questa crisi pandemica globale ci dice in modo inequivocabile che tutto il Mondo è Paese; è un po’ come se fossimo tornati ad una forma di feudalesimo 4.0. Ad inizio anni 2000 molti migranti si sono riversati nella pianura padana e sono stati impiegati nell’agricoltura, nella zootermia ed in molte altre attività; oggi i figli di quegli stessi migranti, molti dei quali hanno studiato, sono estremamente attratti dal Regno Unito, dal Canada. E se ne vanno. Prima arrivavano, oggi vanno via: è evidente l’inversione di tendenza del flusso. L’Italia, in fondo, è stata ed è considerata un primo approdo, ma non una destinazione finale. Certamente la globalizzazione ha accentuato imprevedibili flussi migratori in uscita, dal Comune di cui sono Sindaco ma, più in generale, dal nostro Paese.  

Flussi in uscita che non sono stati sostituiti da flussi in ingresso?

No, direi proprio di no.

 

Periodo difficile, questo, nel quale le persone e le comunità sono messe a dura prova. Dal tuo punto di vista quali sono le strategie che consentiranno alle comunità di proiettarsi nel futuro? Quanto “radici della comunità” e “futuro della comunità” sono interconnesse?

Origini e futuro, tradizione e innovazione: un legame interessantissimo. Che collegherei anche al tema dell’identità. Tolkien diceva “Le radici profonde non gelano”. 

Ti faccio un esempio: oggi, giustamente, si parla tanto di temi ambientali, di Green New Deal, di transizione energetica. Sono il futuro. Anche nel mio territorio si parla tanto di filiere ambientalmente sostenibili, di biologico; io ne sono un sostenitore. Ma – se ci pensi – noi veniamo da lì, da quella storia: la bassa bresciana era una terra paludosa ed incoltivabile che, grazie all’ora et labora dei monaci benedettini, è stata trasformata, resa  fertile, trovando così un futuro ed uno sviluppo. Non è forse questa una connessione tra origini e futuro? E’ innegabile, dal mio punto di vista, che nella storia ci siano i semi del futuro

La tua domanda mi porta tuttavia a sottolineare una dimensione di forte criticità relativa al futuro: l’inverno demografico nel quale siamo sprofondati. Senza figli – infatti – non c’è futuro per le comunità, che devono riconnettersi, riappropriarsi del proprio futuro partendo dalla famiglia. E la comunità deve essere il nido di riferimento dei nuovi nati, che devono trovare servizi ampi pronti ad accoglierli. Le radici, infatti, non sono solo tradizione e folklore: per costruire il futuro è necessario piantare anche nuove piante.

 

Concetti essenziali i tuoi, semplici, lineari. Ma non per questo banali.  

L’identità è semplicità, a mio avviso. Ma la semplicità non è necessariamente sinonimo di superficialità: tutt’altro. Avere radici ben presenti ma proiettarle nel futuro è tutt’altro che banale da farsi. 

Giacomo, chi sono a tuo avviso gli interlocutori prioritari con i quali condividere una strategia di sviluppo della comunità? Quale rapporto tra comunità e imprenditoria?

Chi può sentirsi escluso dalla costruzione della comunità del domani, specialmente dopo tutto quello che stiamo passando? Nessuno, direi. Proprio nessuno. 

Quando sono diventato Sindaco, ad esempio, una delle prime cose che abbiamo fatto è stata la rivitalizzazione di un’associazione storica di anziani presente sul territorio, che oggi è il partner per antonomasia dell’amministrazione comunale. Ancora: ogni anno, in occasione della Festa del Volontariato, viene definito un obiettivo comune per tutte le associazioni del territorio che sono chiamate a collaborare per una finalità condivisa. Il Terzo Settore è per noi il partner per eccellenza: senza l’apporto dei volontari, infatti, molte delle cose che facciamo sarebbero impossibili

Tutti siamo sulla stessa barca, e tutti dobbiamo remare. La situazione che stiamo vivendo deve vedere tutti gli attori delle comunità protagonisti e coinvolti. 

 

Sei un sindaco intergenerazionale, quindi? 

(Sorride) Diciamo che mi è sempre piaciuto dialogare tanto con il sedicenne scapestrato che con il settantenne con tanta vita vissuta alle spalle. Mi piacciono le situazioni trasversali. 

 

Quanto le risorse economiche influiscono sullo sviluppo fattore “cambiamento della comunità”? E quelle umane? Dove reperire le une e le altre?

Guarda, se mi fosse basato sull’analisi dei flussi finanziari difficilmente mi sarei messi in gioco come amministratore pubblico. Ma, come si dice dalle nostre parti, “A ‘nda sa leca, a sta seca” (Andando si realizza, a stare si muore, ndr). A Gottolengo non ci sono molte seconde case e i flussi turistici non sono certo paragonabili a quelli di molti altri comuni della nostra Provincia. Ma ti assicuro che il pathos, il coinvolgimento e la capacità di far sentire uniti, tutti, attorno ad una visione ci hanno fatto superare tanti ostacoli economici. Gli scambi interni alla comunità non sono solo funzionali all’attaccamento delle persone alla comunità stessa, ma sono anche fondamentali per portare in luce risorse che la stessa comunità non pensava di avere e che invece esistono. 

In questo periodo, cosa le nostre comunità locali devono perdere per salvaguardare sé stesse?

Dobbiamo mollare l’esclusiva ricerca del bene personale per aprirci ad una dimensione in cui la comunità è al centro; e comprendere che porre la comunità al centro non è in antitesi alla realizzazione individuale. Bisogna saper mollare per aprirsi ad una solidarietà che genera un equilibrio di comunità che fa bene a tutti. Altro aspetto: la comunità deve essere capace di non lasciarsi ingolosire da apparenti opportunità dell’oggi senza avere piena consapevolezza delle ripercussioni di tali opportunità sul futuro. Molti comuni, negli anni, si sono ad esempio lasciati tentare da urbanizzazioni importanti, che hanno generato oneri interessanti nel breve periodo, ma impoverimento e miseria nel lungo. 

Io, però, sono ottimista. Negli ultimi anni vedo passi da gigante in tema di investimenti sul welfare aziendale, sull’importanza del bilancio etico, sull’attenzione posta ai dipendenti come persone. Sono stati fatti passi da gigante, che fanno certamente ben sperare. 

 

Intervista a Don Paolo Steffano

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Don Paolo Steffano ha 56 anni: è parroco di Baranzate, nella cintura milanese, e dal 2004 ha dato vita a un progetto di animazione della comunità che ha pochi eguali in Italia. ‘Un Pastore con l’odore delle pecore in un quartiere che è l’emblema della multietnicità’ lo ha definito di recente il quotidiano Avvenire in un lungo articolo a lui dedicato, cogliendo con un’immagine molto efficace la vicinanza tra don Paolo e la ‘sua’ gente. Don Paolo è un fiume in piena e il suo racconto ci travolge per un’ora con una parlata meneghina che strizza l’occhio al Milanese Imbruttito e una ironia irriverente che lo fa somigliare decisamente più a Giuseppe Parini, e la storia che dipinge è un continuo colpo di scena.

In questo periodo, cosa le nostre comunità locali devono perdere per salvaguardare sé stesse? Con che strategia possono avere un futuro?

Ribalterei la domanda: cosa rimane dopo tutte le perdite? Rimane il radicamento nel territorio che per noi vuol dire investire tutto nelle relazioni. A Baranzate abbiamo costruito con la comunità molti servizi: il doposcuola, la distribuzione dei viveri… la pandemia ha messo tutto in discussione. Non siamo più riusciti a fare le cose come prima, abbiamo perso il nostro modo ‘normale’ di gestire le attività. In tutto questo cambiamento noi ci siamo chiesti non come risolvere i problemi che stavano emergendo, ma come tenere vive le relazioni che avevamo costruito.

Pensare di essere ‘quelli che risolvono i problemi‘ si porta dietro ancora un po’ di ‘puzza di assistenza’. La nostra utilità non è nel risolvere i problemi, ma nel creare relazioni che tengono le persone in gioco ognuno per il proprio ruolo e per la propria esperienza. Dopo tanti anni di lavoro nella comunità ci siamo accorti che l’inclusione non passa da progetti e attività pure belli e interessanti. Passa invece dal radicamento in un territorio che crea relazioni tra le persone.

Noi siamo una realtà di parrocchia ma per lavorare in un modo più aperto e non confessionale abbiamo dato vita prima a una associazione e poi alla fondazione IN-OLTRE che fin nel nome ha la sua vision: IN cioè essere radicati e incarnati, ma anche OLTRE per uscire dai nostri confini.

Faccio un esempio. Abbiamo lanciato la raccolta di punti del supermercato Esselunga per trasformarli in buoni spesa da dare a persone in difficoltà, e ce ne hanno donati una enormità. Ne è nato un progetto che si chiama ‘Esselunga nutre le periferie’ che trasforma i punti e le donazioni raccolte da sponsor in sostegno a piccole realtà vivaci ma senza grandi strumenti anche in territori diversi dal nostro. Come Fondazione abbiamo scelto di andare noi a cercare la piccola associazione che ha aperto un negozietto, il gruppo di donne… Li incontriamo, ragioniamo con loro, e ad ogni 6.000 euro raccolti facciamo partire un progetto di sostegno. La Fondazione non è la banca della parrocchia e i fondi che raccogliamo non servono a mantenere la nostra struttura: certo, sostiene l’associazione di Baranzate ma è nata per andare oltre, per sostenere soggetti piccoli che provano a fare comunità. Non sosteniamo le organizzazioni grandi e note: loro le risorse sanno come cercarle. Ci occupiamo di realtà belle e buone, magari non tanto strutturate, che sono nate come siamo nati noi: dal basso e con pochi mezzi. L’importante è il radicamento territoriale venga prima del progetto, perché i progetti, a volte, sono fini a se stessi. In tempi di pandemia ad esempio alcuni progetti hanno raccolto più fondi di prima, e il dramma di alcuni è diventato ricchezza per altri. Il caso dei migranti è emblematico.

Quindi oggi, dopo 15 anni, tu sei diventato un finanziatore di altre comunità?

Da sempre noi abbiamo chiesto ai finanziatori: aiutateci a essere autonomi. Ora abbiamo anche finanziatori importanti e chiediamo loro di sostenerci non per strutturarci meglio o diventare più grandi avviando nuove attività o assorbendo progetti di altri, magari in difficoltà. Ci sono già tante realtà che gestiscono servizi. Noi abbiamo scelti non di diventare competitor con realtà che ci sono già, ma di occuparci di quello che manca. Per noi il risultato non è passare da 15 a 25 appartamenti che gestiamo per accogliere le famiglie. Il vero successo è coinvolgere un quartiere, prendere 3 appartamenti in affitto calmierato e seguirli così bene da non avere -ad esempio- morosità: che è il segno di un accompagnamento che funziona davvero.

La vera novità su cui stiamo lavorando non è tenere per noi le risorse, ma sostenere l’empowerment delle piccole realtà di cui è piena l’Italia. L’unico vero indicatore di interesse per noi è il radicamento territoriale, la capacità di continuare a lavorare nella comunità nel tempo, anche oltre i progetti: che sia a Molise Calvairate o in Bolivia o in Ucraina, che sono i paesi da cui provengono alcune delle persone con cui lavoriamo a Baranzate. Non solo per noi. 

Chi sono gli interlocutori prioritari coi quali condividere una strategia di cambiamento? Come costruisci le tue alleanze?

Per noi il lavoro, anche la costruzione di alleanze, parte dal basso, dalla concretezza del lavoro sul campo. Lavorando sui territori incontri tante persone, a volte anche persone ‘che contano’. Noi non li andiamo a cercare con progetti o proposte politiche. Li incontriamo quando passano da noi, quando vivono la nostra realtà e ci vedono lavorare. Ci sostiene chi si lascia contagiare, chi crede nel nostro modo di proporre il cambiamento. Paolo Barilla, che ci sostiene, è venuto 10 volte a mangiare un panino al bar: non per sentirsi ringraziare e nemmeno per controllare i lavori che ha sostenuto. Viene da noi per sentirsi parte del cambiamento che lui sta aiutando a costruire. E come lui Corrado Passera che ci ha aiutato con delle consulenze, o la Dottoressa Bracco. Anche noi facciamo lo stesso, e andiamo in giro a vedere a Verona, a Torino, a Scampia… 

Noi, un po’ per necessità e un po’ per storia, non abbiamo convenzioni con i Comuni che certe volte non si sa se non hanno gli occhi per piangere o il cervello per decidere. Certo le risorse dei bandi aiutano, ma alla lunga quella logica ti logora. Noi abbiamo scelto di essere liberi: certo in questo avere l’aiuto di grandi finanziatori ci aiuta, ma abbiamo sempre lavorato perché le nostre attività fossero sostenibili… quello che non è sostenibile si regge su alleanze, ma sempre nella logica che quello che ci arriva non è solo per noi. Paradossalmente, questa scelta di sostenere altre realtà attira su di noi più risorse.

In una comunità è più funzionale avere un protagonismo diffuso e pochi soggetti trainanti?  Quali sono i luoghi decisionali che permettono di garantire la partecipazione di ognuno al progetto di sviluppo della comunità?

Io sono in uscita: a settembre lascio Baranzate, e la pandemia mi aiuterà a fare un passaggio senza enfasi. L’associazione è nata per un protagonismo diffuso. Quando siamo partiti è ovvio che facessi tutto io perché per partire bisogna sfondare, ma sapevamo che era necessario condividere. Oggi abbiamo una struttura decisionale diffusa attraverso il direttivo, i capi area e i coordinatori. Negli ultimi due anni tutto questo è cresciuto, gestisce e decide al di là della mia figura… sicuramente io influenzo, sono anche ingombrante, ma l’organizzazione è cresciuta, e settembre sarà l’occasione piena di un passaggio generazionale che è cresciuto in dieci anni condividendo il senso di responsabilità.

Del resto ‘far crescere’ è il nostro stile: dare una spinta a realtà che procedono per conto proprio. E’ un modo per non appesantire la propria organizzazione e per far sì che ciascuno si prenda le proprie scelte in mano fino in fondo.

Punti di vista

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“Cosa sei disposto a perdere?” è il filo rosso che guida le prime 3 uscire del blog. Il nostro viaggio si è aperto su una visione più introspettiva dell’imprenditore che si ferma a fare un bilancio su cosa ha preso e cosa è disposto a perdere oggi per assicurarsi il futuro che desidera, e con questa uscita si sposta a quella dell’impresa, delle scelte strategiche, della visione lungimirante. Il tema di questo numero quindi è il cambiamento. Un cambiamento che guarda all’apertura. Ma l’aprirsi porta con sé diverse sfumature.

Ci troviamo così di fronte a due modelli, anzi forse tre: il primo che vede nell’apertura all’interno dell’azienda e della propria filiera produttiva la strategia che permetterà un traghettamento dell’impresa nel futuro. Il secondo che trova la chiave dello sviluppo aziendale nell’apertura al territorio, e alle sollecitazioni che da questo arrivano: uno sviluppo che poggia su un modello smart fatto di bassa immobilizzazione e alte competenze. E’ il tema della responsabilità sociale che fa da sfondo ai diversi modelli e che cerca incarnazione ed equilibrio nelle varie alchimie aziendali.

E il terzo? E’ il testimone di oggi che ci guida in un percorso in cui strategia, ribaltamento delle regole e responsabilità sociale che trascende i confini delle mere scelte aziendali, trova una chiave verso il successo. Un successo che diventa di tutti coloro che hanno saputo vedere la priorità del bene comune.

Chi l’ha detto che per stare a galla bisogna essere leggeri?

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Chi l’ha detto che per stare a galla bisogna essere leggeri?

Ho avuto la possibilità di intervistare Andrea durante il suo viaggio per raggiungere uno dei suoi quattro siti produttivi in Italia. Da Calolziocorte a Tezze sul Brenta in Provincia di Vicenza, una chiacchierata telefonica densa che ha spaziato in ambiti e argomenti diversi ma che mi ha mostrato chi è Andrea Beri, sia come uomo sia nella sua passione per il lavoro e per l’“acciaio”.

Classe 1975, figlio unico, marito e padre, cresciuto in azienda dai reparti produttivi fino a diventare CEO di Steelgroup Italy Holding s.r.l., un progetto che vede protagoniste 3 imprese CB, FAR, ITA specializzate nella produzione di trefoli e fili di acciaio. Un progetto tutto famigliare, che si è tramandato dal nonno fino ad Andrea. 120 milioni di fatturato e 250 dipendenti: questi i numeri ma, come dice Andrea, alla fine contano le “tonnellate” di acciaio venduto.

Conosco Andrea da un paio d’anni, ma solo grazie a questa chiacchierata/intervista ho potuto cogliere appieno l’impegno e la dedizione che questo giovane imprenditore mette ogni giorno nel suo lavoro.

Quest’ultimo periodo ha reso evidente una fragilità della struttura imprenditoriale del Paese. Di fronte a una crisi pandemica che ha diffuso la paura e il senso di precarietà nella popolazione con ripercussioni immediate sui mercati, quali strategie di impresa sono state messe in atto per proiettare la stessa in un futuro che garantisca stabilità e redditività all’impresa?

In un momento delicato come questo credo che la strategia d’impresa per guardare al futuro sia da collegarsi direttamente alla responsabilità dell’imprenditore. La nostra impresa ha una filosofia che si tramanda da mio nonno, a mio padre e mia madre fino a me che è quella di reinvestire da sempre gli utili in azienda. Sono 10 anni che non distribuiamo dividendi sia per sostenere lo sviluppo sia soprattutto per (clicca qui per continuare a leggere)

 

Essere leggeri per volare nella tempesta

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L’industria leggera, nella tempesta, vola.

Uomo, marito e papà di 2 figli. Nodo appassionato di tantissime reti, composite e variegate. Volto dai contorni morbidi, ma sguardo deciso e determinato. Giancarlo Turati è un imprenditore che si è fatto da solo. Non eredita l’azienda di famiglia ma la costruisce, con un socio, giorno dopo giorno. Oggi, quella che 25 anni fa nasce come start up, è una realtà solida, rispettata (un aggettivo che esprime con tono particolarmente fiero), di circa 40 dipendenti e 6 milioni di euro di volume d’affari, che opera in ambito informatico. Giancarlo – socio e amministratore delegato – ne parla con passione e lucidità, mixando considerazioni razionali e ponderate a pensieri e visioni emotive. 

Quest’ultimo periodo ha reso evidente una fragilità della struttura imprenditoriale del Paese. Di fronte a una crisi pandemica che ha diffuso la paura e il senso di precarietà nella popolazione con ripercussioni immediate sui mercati, quali strategie di impresa sono state messe in atto per proiettare la stessa in un futuro che garantisca stabilità e redditività all’impresa?

Sento di dover fare una premessa obbligatoria. Io ho la fortuna di lavorare in un settore che, già pre-Covid, era al centro di una profondissima trasformazione legata al tema digitalizzazione; tale trasformazione mi aveva già obbligato a valutare un funzionamento, un racconto ed un posizionamento nuovo della mia azienda. Il Covid-19 ha quindi contribuito ad accelerare un percorso già in atto: classico caso di una problema che – per certi versi – diventa un’opportunità. 

Spiegami meglio: in cosa consiste questo approccio nuovo avviatosi già pre-Covid? 

Abbiamo scelto di evitare un approccio verticale superspecializzato ai servizi offerti, ponendo al centro di tutto una logica orizzontale, integrata. Oggi l’approccio al business deve essere (clicca qui per continuare a leggere)

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